I brigatisti rossi in cattedra e gli eroi di Dalla Chiesa dimenticati dallo Stato

2 Feb 2016 15:29 - di Luca Maurelli

Li chiamavano Baffo, Il principino, Trucido, Dan: erano brutti, sporchi e cattivi, ma solo con i cattivi. Un manipolo di uomini che lottava contro i guerrieri dell’odio comunista, un piccolo esercito silenzioso guidato dal generale Ufo, “l’ufficiale fuori ordinanza” destinato a morire, pensate, in una minuscola A112 per mano dell’ultimo, sfigato, killer di una mafia già impaurita e miserrima. La partita, trent’anni fa, era Stato contro Br, Dalla Chiesa contro tutti, un classic movie horror di quegli anni Settanta-Ottanta nel quale il sangue si mischiava alla merda della politica: da un lato c’erano loro, i buoni, i vincenti, quelli  che oggi nessuno si fila manco di striscio; in mezzo, uno Stato ambiguo e impotente; sull’altra sponda, i perdenti sul campo ma vittoriosi nell’immaginario mediatico e intellettuale degli anni successivi, quei brigatisti rossi, irriducibili scioltisi al sole del primo pentimento. Oggi la giornalista Fabiola Paterniti, in un libro con prefazione dell’ex ministro Virginio Rognoni –  Tutti gli uomini del Generale, la storia inedita della lotta al terrorismo (Melampo, pp. 224, 16 euro) – ha cercato di raccontare quell’epopea italiana di uno Stato duro e vincente citando finalmente le fonti giuste. Che non sono i terroristi, e neanche i vecchi bacucchi della politica, ma le seconde linee, quelli che operarono nell’ombra e che lì, in gran parte, sono rimasti.

Un libro su Dalla Chiesa e gli eroi dimenticati

Dalla Chiesa è morto, ucciso dalla mafia. I suoi collaboratori, la sua squadra, non è sui sui libri di storia e mai ci finirà: quegli uomini di Stato nessuno li conosce, hanno cognomi da citofoni di periferia, si chiamano Sechi, Nuvoletta, Vitagliano, eppure le Br che sconfissero facevano più paura (e vittime) degli attuali tagliatori di teste dell’Isis. Al contrario i Curcio, i Morucci e i Franceschini dalla clandestinità e dalle galere sono passati alle cattedre universitarie o a ruoli di pubblica testimonianza del loro passato, alimentando la mitologia del brigatismo rosso, quello che ancora oggi affascina una certa intellighentia di sinistra e che all’epoca stava per truffare un’intera generazione di giovani piegandoli a un conflitto sociale fatto di poche idee, deliranti, e tante vittime innocenti. Questi uomini semplici e tosti, che sembrano usciti da  un pezzo dei Guns’s and Roses più che da una canzone dei Pooh, li ha raccontati con interviste e documenti inediti Fabiola Paterniti in questo libro che fa giustizia di un pezzo di storia d’Italia archiviata, genericamente, come una vittoria dello Stato italiano sul terrorismo. No, fu una vittoria con firme: su tutte quella del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa.

L’amarezza del carabiniere Vitagliano

«Io spesso sento alla radio questi conferenzieri che in gioventù facevano i terroristi  e penso che questi signori sono stati in carcere, hanno ucciso, gambizzato ragazzi, eppure hanno il coraggio di parlare ancora…». Un anziano carabiniere beneventano riflette a voce alta, si chiama Pasquale Vitagliano. Finalmente qualcuno gli ha fatto la domanda giusta. In pochi, al bar sotto casa, sanno chi è davvero: lo chiamavano “Trucido”, eppure guardandolo ora, al massimo lo immagineresti sfidare il pericolo con un asso a bastone lanciato sul tavolo di un tresette.  Invece è un uomo dalla vita spericolata, un reduce, per certo aspetti un superstite al quale tutti noi dovremmo essere grati. Solo qualche anno fa, insieme a un manipolo di servitori dello Stato, sotto la guida del generale Dalla Chiesa, aveva sconfitto le Brigate rosse: quelli che, per intenderci, volevano la rivoluzione armata nel segno del comunismo marxista-leninista e avanti popolo alla riscossa bandiera rossa, roba che a pensarci ti viene da rimpiangere perfino Fanfani e Spadolini. Peccato che al Maurizio Costanzo Show o da Minoli, Pasquale il Trucido non sia mai stato invitato e difficilmente lo vedremo, nei prossimi anni, da Barbara D’Urso a raccontare i retroscena di quello scontro frontale Br-Stato che negli anni di Piombo squassò in due il Paese perfino più dell’attuale dibattito sui matrimoni gay…

I terroristi in cattedra fanno più notizia

A Dalla Chiesa piaceva definirsi un soldato, anche quando lo ostacolarono, gli sciolsero la squadra, lo richiamarono, lo implorarono di farcela, poi lo spedirono in Sicilia a combattere e morire: «Io in divisa ho vissuto tutta la mia vita, con l’unico scopo di servire lo Stato, le sue istituzioni, la collettività che mi circonda. Penso però che non mi abbia fatto dimenticare di essere un cittadino come tutti gli altri».

Fabiola Paterniti ha costruito un libro intorno alla sua figura, come epicentro di un terremoto politico e giudiziario che segnò l’Italia, fin dai giorni della nascita del nucleo antiterrorismo, prima nel ’74 e poi nel ’78, e fino alla tragedia del sequestro Moro, che segnò il lento ma inesorabile declino delle Br. Nel libro si parla di ufficiali come Gian Paolo Sechi, Alessandro Ruffino, Domenico Di Petrillo, carabinieri come Michele Gallo, Pasquale Vitagliano, Gennaro Nuvoletta e Giuseppe Severino, magistrati poi diventati famosi come Gian Carlo Caselli e Armando Spataro: ognuno con un ruolo, una storia, tanti aneddoti e un pezzo di verità storica su quella formidabile squadra del Generale che si scomponeva e ricomponeva come un puzzle, con tecniche di intelligence che ancora oggi ci tornerebbero molto utili nella lotta al nuovo terrorismo internazionale: “Studia il tuo nemico, comprendine il linguaggio”, era l’input del generale Ufo. E i suoi eseguivano. Il Gallo, l’occhio di falco, quello che riconosceva al volo i terroristi pescandoli dalla sia incredibile memoria fotografica, ha chiuso il suo personalissimo cerchio quando s’è ritrovato a sostenere l’associazione  “Libera” di Don Ciotti, alla quale ha aderito anche il suo arrestato più importante, il comadanente “Sirio” Sergio Segio. Ora lottano insieme, ma forse non lo sanno. Poi c’è il Sechi, la mente, il braccio destro di Dalla Chiesa, l’uomo che gestì la terribile vicenda del pentimento di Patrizio Peci, con il quale ancora oggi parla al telefono. Sono amici: «Abbiamo creduto in questo Stato, lo abbiamo servito e riverito anche se il Paese si è dimenticato di noi. Ma rifarei tutto», racconta. Perché in fondo nessuno di loro, neanche Baffo, Domenico Di Petrillo – che parla dell’uccisione di Dalla Chiesa come di un delitto di singoli “mascalzoni investiti di responsabilità pubbliche” –  ce la fa davvero a pronunciare con astio quella parolina magica: Stato.

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