La Cassazione annulla la condanna per i “Protocolli dei savi di Sion”
È stato accolto dalla Cassazione il ricorso dell’editore piemontese dei Protocolli dei savi di Sion – caposaldo dell’antisemitismo moderno messo a punto dalla polizia zarista all’inizio del secolo scorso e costituito da falsità su una cospirazione mondiale ebraica e massonica – contro la condanna per diffamazione inflittagli dalla Corte di appello di Torino che il 30 giugno del 2015 in via provvisionale aveva riconosciuto duemila euro di risarcimento alla Comunità ebraica torinese costituitasi parte lesa.
Le decisioni della Cassazione sui Protocolli
Il reato addebitato all’editore Roberto Chiaramonte è stato infatti dichiarato prescritto: la riedizione risaliva al 2008 e la prescrizione è maturata lo scorso gennaio. Ma ad avviso della Suprema Corte – sentenza 47506 – è da annullare, con rinvio per nuovo esame davanti al giudice civile d’appello, anche il risarcimento provvisoriamente stabilito. Secondo il verdetto, i contenuti della postfazione e della postilla – Chiaramonte inneggiava al carattere “veritiero” dei Protocolli che anche se «probabilmente falsi» divulgano «fatti che, dovendo ancora avvenire, sono puntualmente accaduti e continuano ad accadere» – possono rientrare nel diritto di critica al sionismo e non vanno interpretati come frasi diffamatorie verso tutti gli ebrei. Per la Cassazione, la sentenza di condanna «non ha affrontato il problema centrale di cui si fece carico il procuratore di Torino nel richiedere l’archiviazione: rilevato che l’imputato era stato molto attento e abilmente spregiudicato a dirigere le proprie critiche non nei confronti di tutti gli ebrei, bensì solo nei confronti di coloro che egli definisce “sionisti”, il pm aveva ravvisato l’impossibilità di sostenere validamente l’accusa in giudizio». Chiaramonte – rileva la Cassazione – «aveva rivolto i propri strali non verso gli ebrei, ed ancora meno verso la comunità ebraica torinese, bensì contro quei soggetti non necessariamente di religione ebraica coinvolti, secondo la teoria sostenuta dallo stesso autore, per quanto incredibile od inaccettabile, in una cospirazione giudaico-massonica». Per la Cassazione, la teoria complottista dei “Protocoll”’ può essere «una conclusione bislacca ma», per come argomentata da Chiaramonte, «non ipso facto infamante». Nella postfazione, l’editore di Collegno aveva anche citato un passo del Mein Kampf, senza nominare Hitler e indicandolo come «un politico del quale oggi sarebbe vietato parlar bene». In primo grado, la citazione dalla “bibbia” del nazismo era valsa a Chiaramonte la condanna per istigazione all’odio razziale per l’utilizzo dell’espressione “giudei”. In appello questa accusa venne meno perché, sostenne la corte di merito, il termine è stato usato una sola volta, tratto da una citazione, mentre – osserva anche la Cassazione – «nelle restanti parti della medesima postfazione si parla invece di sionisti da un lato e di ebrei dall’altro, così come si sottolinea una differenza di fondo tra antisionismo e antiebraismo». Su questo crinale sottile e insidioso si svilupperà l’appello bis.