«Niente pianti, solo orgoglio per papà, vittima delle Br»

4 Mag 2011 19:07 - di

Piero Mazzola ha la voce serena ma forte. Non c’è tremore dettato dall’odio o dall’emotività, nelle sue parole. C’è consapevolezza. Il libro di Silvia Giralucci, L’inferno sono gli altri (Mondadori, pp. 192, € 17,50) ha riportato dopo tanti anni sui giornali quel maledetto 17 giugno 1974, quando i padri di Silvia e Piero caddero sotto un nucleo brigatista intento al “salto di qualità”. Ed ecco che anche il grande pubblico ritrova familiarità con i cognomi di quei due morti dimenticati, caduti nella penombra di una sezione missina di Padova. Ma per carità, niente pietismo. Piero Mazzola non prova rancore o voglia di rivalsa. Solo tanto orgoglio…

Avvocato Mazzola, ha letto il libro di Silvia Giralucci?

No, non ancora…

Ma le vostre famiglie sono rimaste in contatto?

Guardi, diciamo che abbiamo delle impostazioni differenti…

Affrontiamo allora la questione in termini generali: nelle memorie dei parenti delle vittime di destra di quegli anni emerge spesso la sensazione di sentirsi “figli di un dio minore”. Ha avuto anche lei questa percezione?

Ecco, mi riferivo esattamente a questo approccio. Io rifiuto l’impostazione piagnona che talvolta viene data di quei fatti. Io sono sempre stato orgoglioso della morte di mio padre. Io e tutta la mia famiglia. Siamo orgogliosi anche e soprattutto per la dignità che ha mostrato di fronte ai suoi assassini, come emerso chiaramente nel processo. No, non ci sentiamo figli di un dio minore.

L’espressione si riferisce al fatto che talora i parenti delle vittime si sono sentiti soli, senza protezione e considerazione…

Ma noi non siamo stati abbandonati. Il Msi ci è sempre stato vicino.

E lo Stato?

Se intende in senso economico no, non abbiamo ricevuto nulla. Ma ad esempio le forze dell’ordine – i carabinieri in particolare – e la magistratura sì, ci sono stati vicini.

Questo ci rincuora…

Beninteso, abbiamo avuto difficoltà obiettive, è ovvio. Anche perché noi non abbiamo mai voluto “un” colpevole, esigevamo che si trovasse “il” colpevole. Non è la stessa cosa.

La vicenda dell’allora ministro Ferrero che assume come consulente Susanna Ronconi, una componente del commando che uccise suo padre, la ferì?

C’è chi si dichiarò “sbigottito” rispetto a quella vicenda. Io, invece, ho preferito denunciare Ferrero per abuso d’ufficio. Fu la famiglia Mazzola a farlo ed è grazie a quell’atto che la nomina della Ronconi saltò. C’è un’altra cosa, piuttosto, che mi ha dato fastidio e che è accaduta poco tempo fa…

Cosa?

Il fatto che il premier Silvio Berlusconi abbia dato la sua solidarietà al signore che ha messo i manifesti che equiparavano i magistrati alle Br. È una cosa disgustosa, l’ho anche scritto ai giornali, firmandomi con nome e cognome.

Il suo approccio a questa vicenda mi sembra molto combattivo. In Italia, invece, si oscilla tra l’odio e l’oblio. Ma esiste un modo per storicizzare gli anni di piombo senza dimenticare?

Guardi, uno dei meriti che riconosco a me stesso e alla mia famiglia è stato quello di non aver insegnato l’odio ai nostri figli.

Senza tuttavia dimenticare…

Sa, io credo di aver vendicato la morte di mio padre. L’ho vendicata in giudizio. È una concezione della giustizia che risale a Giustiniano.

Ci spieghi questo punto, sembra interessante…

Vede, nel codice di Giustiniano si dice che è indegno di ricevere l’eredità paterna chi non porta in giudizio l’assassino del genitore. Ecco, io mi sento orgoglioso di aver avuto giustizia nei tribunali, credo di aver fatto il mio dovere.

Che cosa pensa, invece, del perdono?

Distinguerei due piani: quello della responsabilità, in cui ognuno deve farsi carico delle azioni commesse, e quello del perdono, che è una cosa interna, personale, non deve riguardare gli altri. Non bisogna confondere i due piani. E comunque senza responsabilità non si va da nessuna parte. Perché si può anche perdonare, ma non può finire tutto a tarallucci e vino.

Che impressione le fece la diceria giornalistica sulla “faida interna” con la quale, nel vostro come in altri casi, si cercò di sviare l’attenzione dalle responsabilità dell’estrema sinistra?

Intanto le spiego come nacque la storia della faida interna…

Dica pure…

Allora, l’omicidio avviene alle 10.10 del 17 giugno 1974, in via Zabarella 24. Già nel pomeriggio, alla facoltà di scienze politiche dell’università, esce un tazebao che parla di una faida interna tra fascisti. E fu un fatto voluto da parte di quegli esponenti dell’estrema sinistra che pur conoscendo la verità dei fatti non volevano che l’azione fosse rivendicata dalle Br, cosa che invece era nelle intenzioni di Renato Curcio.

La tesi della “faida interna” nasce insomma da una… faida interna all’estrema sinistra?

Sì, nasce da opposte esigenze di propaganda.

Ma se la storiella infame trovò spazio sui media era anche per un ritardo dell’opinione pubblica nel metabolizzare l’idea del terrorismo rosso, no?

Certo, questo ritardo c’era. Finché morivano commissari e missini  c’era difficoltà a prendere le distanze. E gente come Giorgio Bocca diceva che solo un cretino poteva credere che le Br fossero realmente rosse. Solo con l’uccisione di Guido Rossa si invertì la tendenza.

Oggi lei partecipa alle commemorazioni?

Certo, tutti gli anni. Vado ovunque mi chiamino, senza chiedere niente a nessuno. Di sicuro non ho spremuto gli umori del cadavere di mio padre a fini personali.

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