Altra vittima dei manipolatori: il termine "corporativismo"
La società corporativa: i taxisti. La prima pagina Internet, di una rapida ricerca alla voce “corporativismo”, consente di capire con chiarezza e senza ulteriori riflessioni, cosa ha significato in Italia la guerra delle parole, portata avanti e vinta (per tempi ristretti) dal Pci prima e dal centrosinistra poi. Il termine “corporativo” viene subito collegato agli egoismi delle categorie e delle lobby e usato dai commentatori politici per giustificare tutte le inefficienze della società e le mancate riforme di questi anni. I taxisti, ma non solo. Benzinai, farmacisti, ingegneri, medici, giornalisti, architetti e molti altri hanno i loro ordini o le loro associazioni di categoria e con essa si battono per evitare che i propri privilegi vengono intaccati. Così facendo impediscono la concorrenza e mantengono alti i prezzi impoverendo le famiglie. Ergo, sono corporativi. In realtà nulla di quanto viene dato per scontato in questo ragionamento è vero.
La realtà è un’altra
Il termine “corporativismo” nasce come sintesi dei corpi sociali, cioè le associazioni intermedie tra uomo e autorità politica che formano la società civile. Nei liberi Comuni dell’Italia medievale c’erano le corporazioni delle arti e dei mestieri. Più avanti, durante il fascismo, il “corporativismo” significò collaborazione di classe e rappresentò un esperimento – mai concluso – di individuazione di una terza via per superare il capitalismo e il marxismo. Ma per capire bene di che cosa stiamo parlando la fonte più autorevole è la Chiesa cattolica, che si è sempre interrogata sull’atteggiamento da tenere nei confronti del capitalismo imperante e, nel 1891, con Leone XIII sul trono di Pietro, prese posizione in ordine alle questioni sociali, dando origine alla moderna dottrina sociale della Chiesa e individuando una via intermedia al capitalismo e al socialismo: il corporativismo.
La via del cambiamento
Il seme era germogliato: almeno all’interno del movimento cattolico fu trovata la sintesi tra chi pensava a una posizione contigua al movimento socialista, per mediare sull’ateismo professato, e chi, invece, chiedeva progresso, commercio e il laissez faire, abbracciando di fatto il liberismo. Era l’uovo di Colombo e molti se ne resero conto subito. Del resto Leone XIII, che era solito parlare chiaro, si pose subito a metà strada tra le parti, ammonendo la classe operaia a non dar sfogo alla propria rabbia attraverso le idee rivoluzionarie, di invidia e di odio verso i più ricchi. Poi chiese ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti e di abbandonare lo schiavismo cui erano sottoposti gli operai. In un colpo solo veniva data una risposta convincente all’odio di classe e al rivendicazionismo più spinto, oltre che allo sfruttamento dei padroni. La risposta era la società corporativa in cui ognuno doveva collaborare per l’interesse di tutti.
Quell’idea forte
Un’idea solida che il fascismo codificò nella Carta del lavoro del 1927 e cercò di tradurre in pratica attraverso la Camera dei fasci e delle corporazioni. Poi il discorso si interruppe. È evidente, però, che non per questo si può passare a parlare di egoismo categoriale invece che di discorso di sintesi se non nell’ambito, appunto, della guerra delle parole. Si trattava di demolire una costruzione importante e lo si è fatto senta tanti complimenti. Una parte del sistema che veniva messa in discussione, quella legata legato all’ideologia marxista, ha deciso che in termini lessicali il discorso andava capovolto ed è riuscito a far passare questo punto di vista. È successo sul corporativismo ma è successo su molto altro. Basti pensare a una celebre frase che veniva ripetuta nei cortei degli anni Settanta quando l’estrema sinistra amava ripetere che “uccidere un fascista non è reato”. Come a dire che una volta accertato ce si aveva a che fare con un fasciusta tutto diventava lecito. Come lecito era ed è identificare egoismo di parte con corporativo.
Basterebbe un’analisi seria
Eppure se invece di fare riferimento a giornali, riviste e libri si aprisse un vocabolario, si scoprirebbr che il corporativismo è «un ssistema politico ed economico che si propone di superare l’egoismo tra i lavoratori e i datori di lavoro creado un sistema di mediazione degli interessi sotto l’egida dello Stato». Basterebbe prenderne atto. Ma questo, francamente, è chiedere troppo. È di tutta evidenza, alla luce di questa come di altre questioni, che quando nel nostro Paese si parla di superamento delle contrapposizioni ideologiche si dice solo una parte della verità. La sinistra ha incassato la sconfitta che ha fatto seguito al crollo del muro di Berlino ma non ha mai mandato in soffitta il suo mdo di vedere le cose, L’odio di classe faceva e fa parte del suo bagaglio ideologico e lo dimostrano i tentativi di demonizzare sempre e comunque l’avversario. Quello che sta succedendo in questi anni nei confronti di Silvio Berlusconi ne è la dimostrazione più lampante.
Il tiro al bersaglio
Tutto è lecito per colpirlo: è ricco, è basso, va con le escort, racconta barzellette, fa una gaffe dopo l’altra, ha persino il vizio di essere ottimista. Francamente non se ne può più. E, poi, promette di tagliare le tasse e approfitta della crisi economica mondiale per non farlo, divorzia dalla moglie, fa il trapianto di capelli, assicura che procurerà un milione di posti di lavoro e si ferma a soli 900mila. E che dire del terremoto dell’Aquila. Tutto doveva essere ricostruito con uno schiocco di dita e invece così non è stato. Va bene che le case promesse ai terremotati sono arrivate in tempi record, ma il vecchio centro della città è ancora da mettere a posto. E non ci si venga a dire che in Irpinia, dopo trent’anni e migliaia di miliardi spesi siamo ancora più indietro: l’Irpinia è l’Irpinia.