Se Il “dio gossip” fa ammalare anche noi

8 Lug 2011 20:36 - di

Cosa insegna il caso del tablodi britannico News of the World? È un campanello d’allarme, la presa d’atto che nella gestione del gossip l’appello al senso di responsabilità e alla deontologia professionale possono diventare vuoti strumenti retorici, argini sabbiosi che si sfarinano dinanzi all’irruzione di comportamenti che l’opinione pubblica inglese ha giustamente bollato come «disgustosi». Ma in Italia sarebbe possibile? Il sociologo Alberto Abruzzese, che da anni studia le tecniche della comunicazione di massa, mette le mani avanti: «Non siamo a conoscenza di casi così cinici, ma potrei essere smentito anche domani. L’Italia si è uniformata più tardi a certe tendenze, ma le ha pienamente assorbite».

Tutta colpa dell’invasione del gossip?

Che ci sia questa invasione è sotto gli occhi di tutti. In Italia ne facciamo un uso ai limiti del legale, nel caso britannico vediamo che c’è chi ha preso vie del tutto illegali. È la dimostrazione del punto a cui si può arrivare quando si ritiene che il gossip sia una delle risorse fondamentali del mercato delle notizie.

Milioni di persone però sembra che non chiedano altro…

Che ci sia un pubblico ingordo è fuor di dubbio e su questo le interpretazioni possono essere infinite: nei periodi di incertezza questo tipo di morbosità ha una curva di crescita. A ciò si deve aggiungere il fatto che sui giornali c’è carenza di idee e la scelta del gossip per familiarizzare il pubblico a una testata è sembrata la via più facile. La domanda che il caso inglese ci pone è fino a che punto è lecito spingersi per inseguire questa dinamica del mercato delle news, e questo punto coinvolge direttamente la deontologia professionale.

Anche in Italia negli ultimi mesi si sono imbastite campagne politiche sugli affari privati dei politici. Dal caso Boffo in poi, per arrivare fino a Ruby e passando per l’affaire della casa di Montecarlo…

Nel mondo anglosassone questo rilievo del privato nella vita pubblica è un fatto consolidato, solo da noi è un’acquisizione recente. La globalizzazione dei meccanismi di informazione ha fatto sì che anche l’Italia si sia allineata al tipo di “sorveglianza” che esisteva negli altri Paesi. Il fatto nuovo è che in Italia la classe politica sfrutta questa strada scandalistica mentre i motivi di scontro potrebbero essere altri. C’è una certa corruzione del gusto e delle professionalità ma da questo punto di vista possiamo dire, dopo il caso inglese, che tutto il mondo è paese.

Murdoch ha deciso di chiudere “News of the World”. In Italia darebbe per scontato un epilogo del genere?

No, in Italia è difficile immaginare che si decida così tempestivamente la chiusura di una testata ma anche in questo caso va ricordato che nei paesi anglosassoni ci sono una cultura protestante e un’etica del capitalismo molto forti per cui puoi fare le cose più tremende ma se infrangi certe regole poi devi pagare. Da noi tutto questo è molto più difficile.

Da noi il dibattito sulle intercettazioni, a fasi alterne, è molto vivace. È lecito che il Parlamento intervenga?

È una situazione pasticciata. L’intercettazione è uno strumento utile che ha una sua legittimità, è l’uso improprio che va corretto. E tuttavia anche l’idea di colpire il giornalista che pubblica le intercettazioni non è convincente. Le spiego: in un sistema ci sono routine illegittime e routine legittime ma il sistema si regge sulle une e sulle altre. Se uno si sottrae alle pratiche, diciamo così, “anomale” si mette fuori dal sistema. Così, se un giornalista si mettesse in testa di osservare un comportamento rigoroso sulle intercettazioni, finirebbe con il mettersi fuori dalla professione. Questa è l’osservazione di un fenomeno, non vuole essere un’assoluzione.

In Inghilterra ancora regge la distinzione tra giornalismo politico e giornalismo popolare. Da noi i piani si sono confusi ormai da un po’ di tempo…

Il giornalismo “alto” anglosassone ha un pubblico che lo sostiene. Da noi il pubblico delle testate più prestigiose è costantemente a rischio e per questo anche i nostri giornali più illustri si sono allineati ai consumi dominanti. Confido tuttavia, nonostante la televisizzazione del giornalismo, nella caratteristica tutta italiana di sapere mantenere margini di eccellenza rispetto a comportamenti generali non certo edificanti.

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