La politica è etica e servizio: una lezione smarrita
Esiste un modo per fare i conti con l’antipolitica, la vulgata che – per un gioco astuto ed eterodiretto – rischia di mettere in discussione (per chissà quale “potere”) l’unica istituzione che in Italia è determinata realmente dal consenso popolare? Sì, ma non è di sicuro quello di chiudersi a riccio rispetto alle esigenze del popolo. Tutt’altro: questo modo – apparentemente antimoderno – dovrebbe essere quello di recuperare figure, biografie, testi e insegnamenti di chi ha inteso la politica come via ascetica, impersonale. Perché, rispetto a un costume che inevitabilmente dipinge chi è delegato fatalmente come la proiezione del peggio in terra, ci sono stati personaggi che hanno incarnato con il verbo o con le opere una visione differente rispetto alla considerazione che oggi – anche per talune responsabilità personali della classe politica – l’istituzione ricopre.
E questo viaggio può avere inizio proprio da uno dei padri del pensiero cristiano (ma anche di quello politico) come Sant’Agostino che, a proposito di senso civico, se parlava della Chiesa come migliore istituzione di civismo, vedeva però proprio nell’integrazione, nella stretta collaborazione tra la patria terrestre e quella celeste la via per la salvezza. Ovvio, l’autore delle Confessioni intendeva lo Stato fondato sulla giustizia nel quale Dio era comunque al primo posto. Ma secondo questo principio era lo Stato, inteso come politica, che doveva contribuire a “sostenere” il fine ultimo dell’uomo.
Se quello di Agostino era un pensiero tutto interno a una visione mistica e teleologica, con Tommaso Moro e la sua Utopia entriamo a pieno titolo nel pensiero moderno. Che si rifugia in questo caso nell’aspirazione in cui si teorizza la società ideale. Proprio all’interno della sua opera si legge ad esempio come «badare al proprio vantaggio privato è saggezza, badare anche a quello pubblico è religiosa dedizione. Ma rovinare il piacere altrui pur di conseguire il proprio è vera ingiustizia, mentre invece il privarsi di qualcosa per darla ad altri è un dovere di umanità e benevolenza, che non toglie mai tanto bene quanto ne apporta». Come si vede, ci troviamo davanti a una visione politica moderna che mette al centro sì la persona ma inserita però in un contesto sociale complesso.
Andando alle figure del nostro Risorgimento, è Giuseppe Mazzini che incarna a pieno titolo un certo tipo d’uomo tra pensiero e azione. Perché, prima di tutto, si accredita come un rigoroso rivoluzionario, spinto al sacrificio, volto ad «infangar con la voce» e «spegnere con il braccio» i tiranni e i traditori della causa. Ma la stessa Giovane Italia, più che un movimento, era concepita come un “apostolato” semireligioso, i cui membri erano chiamati a una vita di cooperazione e di abnegazione: «Per noi la rivoluzione – scriveva nel 1858 – è un mezzo e non altro, mezzo ad un’opera educatrice, a un progresso delle anime». Questo insistere, rigoroso, accanito, ininterrotto, su un’opera di trasformazione e di rinnovamento da realizzare “dal basso” nasceva appunto da una visione austera e ascetica della vita e della missione politica.
Principio analogo fu quello che mosse Niccolò Giani, il fondatore della scuola di mistica fascista che morì, giovane volontario, in battaglia. I principi-cardine sui quali si basava la scuola erano l’attivismo, la fede in quella patria nata nelle trincee, nella rivoluzione fascista da cui recuperare lo spirito delle origini in una simbiosi tra politica e religiosità. Il soldato politico formato nella scuola doveva rappresentare il tentativo di fare del fascismo una religione civile al motto di – come si legge nel decalogo – «non vi sono privilegi, se non quello di compiere per primi la fatica e il dovere».
Anche la ricostruzione – dopo il drammatico epilogo della Seconda guerra mondiale – ha visto uomini per i quali il servizio politico è stato qualcosa di più che mera gestione del presente. Un esempio è stato Alcide De Gasperi, primo presidente del Consiglio e uomo chiave per la costruzione dell’Europa. Così si rivolgeva a un’Italia a pezzi: «Noi ci rivolgiamo pieni di fede al popolo italiano con il proposito non di governarlo, ma di servirlo in spirito di giustizia e di carità nel senso più profondo e più fraterno». E, pur su fronti opposti, tanto Enrico Berlinguer quanto Giorgio Almirante hanno rappresentato non solo esempi di moralità politica ma anche di abnegazione personale per i “popoli” che guidavano.
L’antipolitica si combatte anche con i grandi esempi che provengono da altre culture. Che dire, infatti, di Gandhi che visse la politica come “cura delle creature”, per il quale l’indipendenza e l’autogoverno dell’India, più che una conquista politica, significavano il recupero del modo di lavorare, di abitare la terra, di vivere, proprio della civiltà e spiritualità tradizionale. Oppure di Malcom X, figura importantissima nell’America della segregazione razziale, che divenne apostolo del diritto all’esistenza di un intero popolo. Ed elevò la politica fino al sacrificio di se stesso.