La cultura si arma e combatte la malavita
Laddove le forze dell’ordine non riescono ad arrivare, per carenza di mezzi e personale, e la politica si affida al potere taumaturgico degli slogan – «più sicurezza» – a combattere contro la delinquenza (bene) organizzata rimane la letteratura. Non quella fricchettona dei premi culturali con annesso aperitivo, né gli atti di dolore dei nostri giovani e già decrepiti scrittori, raggomitolati in un intimismo da cenacolo autoreferenziale. Nel nostro nordest, sempre più terra di conquista della mafia cinese, a dichiarare guerra alla malavita è la narrativa che non ha paura di contaminarsi con i generi meno nobili, quelli che hanno più familiarità con l’immaginario collettivo: il noir, certo, la commedia, per non prendersi troppo sul serio (savianizzarsi), il thriller e – perché no? – anche il western tanto caro a Sergio Leone. Come altro definire, se non da far west, il clima che si respira in quella terra selvaggia che è il Veneto? Epica e iper-realista al tempo stesso, incontaminata, in parte, eppure talmente spregiudicata da essere diventata, nel bene e nel male, il motore del nostro paese.
È di pochi mesi fa, del resto, la notizia dello smantellamento, a Padova, di una cupola cinese che “gestiva” una cinquantina di esercizi affiliati. Che la cronaca rappresenti un’inesaurubile fonte di ispirazione per gli scrittori, ça va sans dire, non è una novità e di spunti il nordest «della Bassa, degli ippodromi e dell’Altopiano dei Sette Comuni» ne offre a bizeffe. Il minimo comune denominatore è sinistramente ripetivito: estorsioni, guerre tra bande per il controllo del territorio, violenze e corruzione. Capita così che come epigrafe di un romanzo, invece di trovare una ghiotta citazione letteraria, ci si imbatta in una notizia (vera) de Il Mattino di Padova datata 19 ottobre 2010: “Mafia cinese, pericolo reale a Padova. Il procuratore di Venezia, Carlo Mastelloni, lancia un nuovo allarme”. L’offensiva è delle edizioni E/O, che hanno da poco inaugurato una collana, la Sabot/Age, con licenza di uccidere omertà e rassegnazione. Curata da Massimo Carlotto e diretta da Colomba Rossi, è «dedicata alle storie che il nostro paese non ha più il coraggio di raccontare». Un mix di pulp e denuncia sociale: «lungi dallo scrivere indagini travestite da romanzi – puntualizzano – gli autori tenteranno di porre il tema all’attenzione del pubblico. Un modo per destare un allarme sociale che, nonostante tutto, non è mai esploso».
Ad aprire il fuoco con il primo romanzo della collana – La ballata di Mila (E/O, pp. 200, € 17) – è Matteo Strukul, padovano della classe 1973, consulente editoriale e critico musicale, cofondatore, con il collega Matteo Righetto, del movimento letterario Sugarpul, i cui numi tutelari sono i nuovi maestri del noir a stelle e strisce Joe R. Lansdale e Victor Gischler. «Gli autori della mia generazione dovrebbero avere più coraggio e uscire da questa curiosa tendenza al vittimismo, come se fossero minacciati da chissà quale Colombre», dice con una sana dose di sfrontatezza Strukul, che s’è fatto coraggio e ha raccontato una storia “pulposa” che non è vera ma più che verosimile: due commercialisti uccisi a colpi di pistola. Due valigette piene di soldi, rubate durante una sparatoria micidiale. Due gang di criminali che si contendono il territorio veneto. In mezzo a tutto questo una donna spietata e pronta a sparigliare le carte. Non è una supereroina ma una adolescente cresciuta troppo in fretta a robuste colazioni di dolore. Il suo nome è Mila Zago, «vittima destinata suo malgrado a diventare carnefice». Nome di battaglia Red Dread, dreadlock rossi, occhi verdi, un corpo forgiato da anni di allenamento e consacrato alle arti del combattimento. Una donna ben diversa dai cliché velinosi cui siamo abituati: dura, energica, non si lascia intossicare dalla paura. Perché la paura non fa riflettere e ci rende deboli. «È una giustiziera non appesantita da spasmi di moralismi, condannata a scontrarsi contro il marcio perché il marcio le si è scagliato contro». La tratteggia così, l’autore, che non nasconde d’aver pescato a piene mani da cinema e letteratura, mescolando eccessi tarantiniani con chiaroscuri chandleriani, suggestioni fumettistiche con incalzanti ritmi da videogame. «Mi sono ispirato – spiega – a Nikita di Luc Besson; La sposa di Kill Bill; la Catwoman interpretata da Michelle Pfeiffer in Batman; Jolanda, la figlia del Corsaro Nero; la spietata Milady de I tre moschettieri, ma anche la Jo di Piccole Donne di Louisa May Alcott». Figure femminili diverse tra loro ma capaci di segnare un forte impatto sulla storia. «Ero stanco di eroine della narrativa italiana molto remissive e relegate a ruoli secondari – sottolinea Strukul – come se una donna non potesse essere il centro anche “action” di un romanzo. Mila andrà fino in fondo applicando un concetto di giustizia molto personale, figlio di contraddizioni e rabbia, ma per certi aspetti, la sua sarà una reazione assolutamente comprensibile».
Occhio per occhio, dente per dente. L’adrenalinico romanzo, non lesinando su spettacolo e colpi di scena, ricostruisce decriptandoli senza didascalismi e con inconsueta competenza – l’autore ha conseguito un dottorato in diritto europeo dei contratti – le dinamiche e i meccanismi su cui la mafia cinese sta costruendo il suo impero: dal riciclaggio del denaro sporco con cui lavare i proventi ricavati dallo spaccio di droga al traffico di esseri umani attraverso il ricatto del permesso di soggiorno, dai turni massacranti nei laboratori tessili clandestini alla concorrenza sleale operata in barba a qualsiasi diritto umano ancor prima che direttiva comunitaria o legge interna.
Intendiamoci: la soluzione dei problemi non passa per il conflitto tra civiltà (o rispettive inciviltà che dir si voglia) e il romanzo non parla certo il linguaggio della xenofobia. Al contrario, la ricetta che l’autore propone è un’integrazione fondata sulla conoscenza reciproca, sul rispetto e soprattutto su una reale volontà di integrazione, anche da parte degli immigrati. Quella che manca a Guo Xiaoping, boss cinese e spietato capo della gang dei “Pugnali Parlanti”: «Per infinocchiare meglio quegli zotici di leghisti – spiega ai suoi compari nelle prime pagine del romanzo – bisogna dar loro la sensazione di essere completamente integrati».
«Da parte del popolo cinese – sottolinea Strukul – vi è una fortissima chiusura, un sistema autoconcluso che tende a rimanere impermeabile all’esterno. D’altra parte, però, va detto che le amministrazioni locali non creano alcuna occasione d’incontro, confidando che il problema si risolva da solo e che le tensioni si spengano col tempo. Città più lungimiranti, penso ad Amsterdam o Berlino, ad esempio, trasformano le feste delle comunità etniche minoritarie da momenti ludici in momenti da condividere tutti insieme. Cultura e cucina sono percorsi antropologici insostituibili per avvicinare uomini e donne che appartengono a popoli diversi. Perché, in tre parole, abbattono la paura».
Né scontro di civiltà, né buonismo autolesionista. La terza via è quella più complicata: la conoscenza. Per fare questo, è importante sensibilizzare – con un approccio il meno didattico possibile – i più giovani, esattamente come cerca di fare Strukul con questo affascinante “patchwork pop” che si legge come fosse un fumetto e con la sensuale Mila, già bella che pronta per un sequel che – ci anticipa l’autore – potrebbe essere ambientato tra il Veneto e Berlino. L’auspicio è che Mila possa un giorno, proprio come ha fatto l’ambigua e carismatica Lisbeth Salanger di Stieg Larsson, spiccare il salto che la porterà dalle librerie al grande schermo. Interpretata, magari, da un’attrice italiana. E non sarebbe male per un personaggio tutto made in Italy.