Fascismo, De Felice esce vincitore dal dibattito storico
In principio ci fu il predominio del “paradigma antifascista” di stampo marxista o azionista. Poi arrivò Renzo De Felice a inalberare il vessillo del “revisionismo”. Una nuova, contestatissima scuola, questa, che, dopo la fine della prima Repubblica, grazie soprattutto a storici non accademici come Giampaolo Pansa, assestò colpi ancora più duri agli schemi interpretativi che avevano funzionato fino a metà degli anni Sessanta e che lo storico reatino aveva messo in discussione in libri come Le interpretazioni del fascismo (Laterza, 1969), Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici (ivi, 1970), Intervista sul fascismo, a cura di Micheal Ledeen, ivi, 1975) e la monumentale biografia di Mussolini, edita da Einaudi (primo volume, Mussolini il rivoluzionario, uscito nel 1965; l’ultimo – il nono – Mussolini l’alleato, uscito nel 1997, un anno dopo la morte dell’autore, e ovviamente incompleto). Adesso, ci dice Gustavo Corni in Fascismo. Condanne e revisioni(presentazione di Alessandro Barbero, Salerno Editrice, pp. 133, euro 12), bisogna andare al di là del revisionismo. In che senso?
Leggiamo nelle pagine conclusive del suo saggio: «A una vulgata antifascista per molti versi ripetitiva e lacunosa sembra essersi sovrapposta negli ultimi due decenni una vulgata revisionista di segno opposto, sicuramente più rigida e meno suffragata da riscontri nella ricerca empirica. Entrambe hanno influenzato e continuano a influenzare l’opinione pubblica». Il che non va bene, sostiene Corni: infatti, non è vero che sul piano scientifico e storiografico gli studiosi di sinistra, e in particolare comunisti, fossero così condizionati dall’ortodossia marxista e antifascista come De Felice dava polemicamente per scontato; così come non è vero che «le tesi dello studioso reatino, seppure talvolta a stento riconoscibili all’interno della sua debordante produzione storiografica, siano riconducibili “tout court” al revisionismo». Urge «fare i conti con la vera natura del regime nella complessità del suo ordine, del suo svolgimento, della sua fine». Altrimenti «sarà difficile affrontare con consapevolezza critica il problema dell’eredità fascista al fine di costruire una memoria condivisa».
Come qualche anno fa ci fece notare Sergio Romano, in occasione di un incontro alla “Versiliana”, se è vero che buona parte della storiografia (studi accademici, saggi su specifici aspetti del Ventennio, ricerche d’archivio) si muove nel senso di una ricostruzione scientifica, in gran parte dei libri di testo per le scuole medie superiori siamo fermi alla “vulgata” antifascista. Quella “vulgata” che è la madre dell’antifascismo diffuso, becero, qualunquista che fa in qualche modo sentire la sua presenza nel dibattito civile, come se fascismo e antifascismo fossero termini di una dialettica politica attuale e come se, spostandoci all’ambito della riflessione storica, del Ventennio non si potesse ragionare “sine ira et studio”.
Ma torniamo al saggio di Corni. Poco più di cento pagine: le interpretazioni del fascismo dal 1922 al 1945, il paradigma antifascista, la Repubblica sociale e la Resistenza, i contributi della nuova storiografia, De Felice e le polemiche su De Felice. Da Croce a Gramsci, da Tasca a Togliatti, da Salvemini a Salvatorelli, da Santarelli a Ragionieri, da Carocci a Candeloro, e, sulla lotta partigiana, da Battaglia a Pavone, un percorso quasi sempre chiaro, puntuale nelle citazioni, argomentato e capace di fornire gli elementi essenziali per un dibattito non viziato dal pregiudizio. Anche quando ricorda, e fa bene, che non pochi elementi di novità nell’interpretazione del fascismo – poi raccolti da De Felice – comparivano nella storiografia di indirizzo comunista (si pensi ad aspetti come la modernizzazione, il consenso, il carattere composito dell’ideologia mussoliniana). Comparivano è vero, per poi sparire schiacciati dall’ apparato ideologico marxista secondo cui il fascismo, nella sua sostanza, era un movimento di reazione antioperaia al servizio della borghesia e dei capitalisti, degli agrari e di tutti i padroni.
Una liquidazione tranchant di un fenomeno complesso. Tanto di cappello, dunque, a De Felice. Lo studioso reatino, uscito dal Pci nel 1956, al tempo della rivolta d’Ungheria, ruppe le uova nel paniere agli storici ufficiali e ortodossi che pure si preparavano a una sorta di “revisione”? Corni non dice questo: anzi, pur bacchettando in non pochi casi De Felice nel metodo e nel merito della ricerca, ci dice che quelle tesi «non sono riconducibili tout court al revisionismo».
Ma, per tornare alle riflessioni sul cammino storiografico da fare, come mai questo termine continua a disturbare? Perché tanto infastidito rigetto da parte di Corni nei confronti dei libri di Pansa? Leggiamo: «Le pubblicazioni di Pansa rappresentano uno dei più ambiziosi tentativi di popolarizzare la visione dei comunisti italiani come ambigui doppiogiochisti, che non meritano di vantarsi di avere contribuito a costruire la democrazia in Italia dopo il 1945, dato che il loro vero intento era quello di distruggere la democrazia. Un’operazione che lascia sullo sfondo la dittatura fascista, come se gli eventi drammatici del 1945-46 non potessero spiegarsi se non (anche) come reazione a ciò che era avvenuto con la dittatura». Queste affermazioni ci spiazzano – in nome di che cosa lottavano i comunisti? Pansa dice una balla dicendo che lottavano per distruggere la democrazia? quell’anche, tra parentesi, non è una certificazione di attendibilità a quel che racconta lo storico monferrino? – un po’ ci sembrano pervase da una certa animosità. Il vincitore che “spiega”, e dunque giustifica, legittima, la propria barbarie, condannando quella degli altri – i vinti – e sui vinti, innocenti o colpevoli che siano, infierendo, non è una bella immagine pacificatrice, degna di una memoria condivisa.