Il crollo dell’Urss vent’anni dopo
Vent’anni fa, nel dicembre del 1991, viene sciolta formalmente l’Unione sovietica. Dopo settant’anni, sotto il peso della storia e delle proprie contraddizioni, crolla quella che per molti era stata la realizzazione del sogno socialista, ma per tantissimi, per milioni e milioni di esseri umani, ha rappresentato un terribile incubo e una spietata dittatura contro l’umanità. Gli eventi del ’91, se visti adesso sembrano solamente una carrellata di date utili a fini statistici, ma chi ha memoria di quei mesi non può dimenticare le fasi drammatiche e al contempo emozionanti dell’implosione dell’impero sovietico. Preceduta nel 1989 dalla caduta del Muro di Berlino e dal distacco della Germania Est dalla sfera d’influenza russa, ma anche dalla rivolta in Romania, dalle pacifiche rivoluzioni in Ungheria e Polonia e dalla “rivoluzione di velluto” di Praga, la fine dell’Urss viene sancita anche dal dissolvimento del Patto di Varsavia che fin dal 1955 aveva legato i Paesi dell’Europa orientale nel blocco comunista.
Il primo segnale dell’imminente crollo, però, arriva dall’interno dei confini sovietici, quando nel gennaio del 1991 l’Armata Rossa occupa Vilnius, la capitale della Lituania, tentando di bloccare con la repressione la richiesta di autonomia dal governo centrale moscovita. I diktat del Cremlino, tuttavia, non sono sufficienti a fermare il treno della storia, che corre molto più veloce dei calcoli di burocrati, funzionari di partito e vertici militari. Da quel momento, infatti, come un gigantesco effetto domino, la sete di indipendenza da Mosca si diffonde a macchia d’olio, oltrepassando i confini interni all’Urss, coinvolgendo proprio Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria ed estendendosi anche alla Bulgaria e alle altre nazioni aderenti al Patto di Varsavia. Lo sfaldamento dell’alleanza politico militare dei Paesi dell’Est porta, infine, il 1° luglio di quello stesso anno, allo scioglimento del Patto.
Questo evento, però, è solo l’inizio dell’ingloriosa implosione di quella che era stata l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Noncurante della repressione avvenuta in Lituania, infatti, ad aprile è la Georgia a dichiarare la propria indipendenza dal governo moscovita. Qualche tempo dopo, il 19 agosto un altro chiaro segnale fa inequivocabilmente presagire l’imminente fine dell’Urss: il capo dello stato Mikhail Gorbaciov viene trattenuto nella sua dacia in Crimea contro la propria volontà, mentre a Mosca si consuma un tentativo di colpo di stato perpetrato da nostalgici della linea dura, sventato dopo qualche giorno grazie all’intervento del rampante Boris Eltsin, dimessosi un anno prima dal Partito comunista e da poco eletto alla carica di presidente della Repubblica russa.
Il granitico blocco rosso va in frantumi. Gli ultimi colpi di coda della dittatura comunista vengono sovrastati dalla voglia di libertà di milioni di uomini e donne fino ad allora stretti in una morsa insopportabile. E così, il 20 agosto è il turno della dichiarazione d’indipendenza dell’Estonia, il giorno seguente della Lettonia e quindici giorni dopo della stessa Lituania. I Paesi baltici si liberano così dalle catene dell’appartenenza all’Urss, alla quale erano stati annessi contro la propria volontà dopo la seconda guerra mondiale, quando decine di migliaia di persone che avevano resistito contro gli invasori sovietici erano state uccise o deportate. Negli stessi giorni di agosto del ’91, nonostante la tenuta del Cremlino rispetto al tentativo di golpe interno, la situazione precipita anche a Mosca: il 23 agosto la rivolta popolare prende di mira il Partito comunista, le sue sedi vengono invase dalla folla, che abbatte le statue di Stalin, di Lenin e gli altri simboli del socialismo, emblemi di una dittatura che nei suoi settant’anni di permanenza aveva provocato tantissimi morti, deportato nei gulag i dissidenti e ridotto al silenzio popoli interi. A saziare la fame di libertà non bastano più la Perestrojka e la glasnost volute fin dagli anni Ottanta da Gorbaciov per scongiurare il tracollo sovietico. Quello che chiede la gente è la libertà dalla dittatura. Mentre Mosca è nel caos, come pezzi di un mosaico che si sfalda, anche le altre Repubbliche ex sovietiche dichiarano la secessione: il 24 agosto a proclamarsi indipendente è l’Ucraina, il giorno seguente la Bielorussia e quarantott’ore dopo la Moldavia. La rivolta si estende quindi agli stati caucasici e asiatici: a turno l’Azerbaigian, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Tagikistan e l’Armenia si staccano da Mosca, rivendicando il proprio diritto all’autodeterminazione e sancendo la piena sovranità nazionale sui propri territori.
E così, sotto il peso degli eventi il 25 dicembre del ’91, Michail Gorbaciov, che già in estate aveva abbandonato la guida del Partito comunista, si dimette da presidente dell’Urss e il giorno dopo l’Urss viene formalmente sciolta. A cedere è il centro stesso del comunismo mondiale, perché si dissolve il primo stato socialista al mondo, che era stato fondato ufficialmente il 30 dicembre del 1922 sulle ceneri dell’Impero degli zar, dopo avere prevalso brutalmente sull’Armata Bianca, sugli eserciti contadini e su ben diciotto governi ostili a quello bolscevico e alla rivoluzione di Lenin e compagni.