40 anni dopo, «Eowyn» esce “dalle fogne” e diventa bestseller

16 Feb 2012 20:14 - di

Da quando Severino Colombo le ha ribattezzate “principesse e regine del fantasy italiano”, sull’inserto La Lettura del Corriere, queste donne sono divenute un caso letterario. Un piccolo fenomeno socio-editoriale, che in notorietà batte molti colleghi maschi e aiuta non poco la crescita del genere, anche in termini di vendite. Sono otto scrittrici di età compresa tra i diciannove e i quarantasette anni, che a suon di numeri e d’interviste hanno conquistano il pubblico, riaprendo una nuova (vecchia) parentesi del fantasy italiano, tutta al femminile. I loro nomi: Licia Troisi, la “diva”, con due milioni di libri venduti in 18 Paesi, classe ’80; Miriam Mastrovito, pugliese trentottenne; Miki Montingelli, toscana, trentaseienne ingegnere elettronico; Claudia Colombo, diciannovenne napoletana, appena cimentata con l’urban fantasy, sulle tracce di Stephanie Mayer; Elisa Rosso, liceale milanese, classe ’93; Elisabetta Gnone, altra regina delle vendite, genovese classe ’65; Laura Manni, romana trentenne; Chiara Strazzula, ventunenne siciliana.
Otto donne di successo, in un abito ritenuto prettamente maschile, che in qualche recondito angolo del cuore sognano di ripetere le gesta di J.K. Rowling o della grande Ana María Matute. Scrittrice spagnola classe ’25, per ben tre volte nella cinquina del Nobel grazie a pietre miliari della narrativa fantastica. Libri come Dimenticato Re Gudù, Cavaliere senza ritorno e Prima memoria, pubblicati in Italia da Rizzoli e Sellerio, che hanno riscritto le regole del genere e spalancato all’autrice le porte della grande letteratura, dopo anni di immeritato confino tra i “libri per ragazzi”. D’altronde, quello di concepire storie che cumulano milioni di lettori, fruibili da un pubblico indistinto e persino fanciullesco, è stato ritenuto per anni, da parte della critica, un vizio originale, quasi una colpa. Dimenticando che proprio nel fantasy, dietro vicende apparentemente semplici, si nascondono segni e personaggi complessi, che aprono a diversi livelli di lettura e di rappresentazione della realtà.  
In Italia – chi ha praticato la vicenda umano-politica della destra dal ’70 ad oggi lo sa – il percorso di affermazione del fantasy è ancora più interessante. Perché riguarda, in modo indissolubile, le vicende socio-esistenziali di un’intera comunità di persone, che dall’immaginario fantastico, tolkeniano in primis, ha tratto ispirazione e simboli, alimentando un innamoramento intellettuale che dura ancora oggi. Gianfranco De Turris, forse il più autorevole tra gli studiosi italiani del genere, in un’intervista di qualche anno fa, ricostruisce le ragioni fondamentali di questa relazione, che lega la cultura di destra al fantasy: «La narrativa di Tolkien e la “heroic fantasy” – racconta De Turris – era per così dire più connaturale all’animus del ragazzo di destra, al suo modo di vivere e di sentire, alla sua mitologia personale e collettiva. (…) Non lo si può negare. Ed ecco perché i Campi Hobbit si chiamarono così, ed ecco perché la Nuova Destra pose molta attenzione prima a Tolkien e poi alla “fantasy” più in generale. Il “significato” di questo interesse nella Destra, che si è estrinsecato da un lato in una produzione narrativa e in un approfondimento critico di questa narrativa, ma anche in alcuni tentativi comunitari da un altro, è per me importantissimo, anche se a qualcuno potrà sembrare eccessivo ed esagerato». In effetti, nei momenti più tragici e complicati della loro storia, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, questo ritrovarsi nella letteratura fantastica ha salvato molti giovani di destra dalla dispersione generazionale, donandogli un nuovo mito. Un mito che ha avuto decine di declinazioni e persino una proficua parentesi femminile, che oggi dobbiamo riconoscere, almeno in parte, come ideale progenitrice dell’odierno fantasy “rosa”.
Era il 1976, quando vide la luce, a Roma, sotto la responsabilità di Monica Centanni e Marilena Novelli, la rivista Eowyn. Un periodico nato nella destra missina, per allargare gli orizzonti della condizione femminile oltre lo steccato (rigido) del femminismo, prefigurando una nuova immagine di donna, che sfocia nei numerosi proclami lanciati tra le pagine della rivista. Come quello, datato giugno ’77, stampato sulla prima pagina del numero 4: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società».
Ovviamente, per i conoscitori dell’opera di Tolkien, il nome della rivista non è casuale. Eowyn (Éowyn in originale) è un personaggio centrale del Signore degli anelli. È la nipote di Théoden, sovrano dei Rohirrim, orfana sin da piccola, che vive nella casa dello zio. Un bellezza notevole, dolce e amorevole, innamorata non ricambiata di un eroe, Aragorn, ma anche combattiva, capace di affrontare la battaglia e brandire la spada. L’ideale personificazione di una donna forte, capace e moderna, decisa a fronteggiare le ingiustizie sociali e l’immagine desueta di angelo del focolare. L’estetica della rivista, tipicamente fantasy, è la vera novità. Perché costituisce, almeno in Italia, il primo tentativo di portare la simbologia del genere al di fuori di un ambito strettamente maschile. Grazie a un mix inedito, che fonde le eroine dei poemi epici quattro-cinquecenteschi, con le figure celtiche e le algide bellezze preraffaellite del tardo Ottocento, anticipando le attuali protagoniste di storie fantastiche. La donna di Éowyn era così: forte, dolce ed emancipata. Madre o zia ideale, delle tante ragazze che abitano i romanzi fantasy di oggi. E un po’, ma lo ammetteranno in poche, anche di quelle che li scrivono.

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