Robert Triozzi: una vita da pompiere… da Sarajevo a Baghdad

14 Feb 2012 20:10 - di

Robert Triozzi, nato a New York ma italiano di origine, ex ufficiale dei pompieri di New York, ex comandante dei vigili del fuoco dell’Onu, oggi è il Comandante del Fire Rescue Development Program, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ong da lui fondata nel 2001. Che vuol dire? Che viene chiamato in tutto il mondo per valutare, organizzare e addestrare i pompieri locali. Anche nei teatri operativi “caldi”. Adesso, per esempio, è in Iraq, a Baghdad, dove sta addestrando i caschi blu nepalesi e figiani al difficile mestiere del vigile del fuoco. E Triozzi è uno che ne sa: ha imparato il mestiere nella Grande Mela, una delle “piazze” più formative del mondo, dopo aver studiato a studiato alla “NYS Academy of Fire Science”. Fu il primo a spiegare in Italia alla Rai, il 12 settembre, che cosa fosse accaduto il giorno prima e perché le Twin Towers fossero crollate in quel modo.

Comandante Triozzi, lei ha iniziato la sua carriera con i celebri pompieri di New York…

Sì, sono stato con loro parecchi anni, fino al 1982. Il fatto è che abitavo proprio vicino la loro caserma, e già da ragazzino andavo con loro per dare una mano. Feci le mie prime esperienze nei numerosi incendi che allora affliggevano New York. E dopo un veloce apprendistato con loro, entrai a far parte del corpo, diventando tenente.

Poi che successe?

Diciamo che ogni anno tornavo in vacanza in Abruzzo, di dove è originaria la mia famiglia. Nel 1982 decisi di passare sei mesi in patria. Poi sono diventati trent’anni…

E cosa ha fatto?

Ebbi un contratto con gli americani che mi vollero come responsabile dei vigili del fuoco per le loro ambasciate in Europa. In occasione dell’incendo della base Nato di Vicenza fui chiamato a scoprire le cause, che individuai. Ci furono circa cinque miliardi di dollari di danni… Ogni anno ovviamente tornavo negli States per fare corsi di aggiornamento.

Quando iniziò a lavorare con le Nazioni Unite?

Nel 1993, e iniziai con un compito abbastanza duro. A Sarajevo, in quell’inferno che era dal 1993 al 1994. Ero il capo dei pompieri e dovevamo accompagnare il personale locale là dove scoppiavano gli incendi causati dai bombardamenti. Quando ci sparavano addosso i cecchini dovevamo chiamre i caschi blu. Come dico spesso, il nostro lavoro è andare là dove tutti fuggono. Non fu un inverno facile. Negli anni successivi lavorai col Pam, il programma alimentare delle Nazioni Unite, e mi mandarono in Angola, Tanzania, Indonesia ad addestrare il personale. In particolare, a Giacarta, istruivamo i pompieri locali a operare nei grattacieli, situazione nella quale sono specializzato. Altro che “inferno di cristallo”…

È stato anche nei Balcani…

Certo, dal 1999 al 2001, in Kosovo. Ero il responsabile di tutti i corpi antincendio kosovari: amministravo il personale, lo addestravo, e dovevo anche barcamenarmi tra serbi e albanesi. Ma non ho mai avuto problemi. Addirittura riuscii a mettere insieme una squadra mista, cosa mai vista prima. E la portai anche in una gara tra vigili del fuoco in Sudafrica, dove si piazzarono benissimo. È un’esperienza che mi ha segnato, perché tra le due etnie succesero atrocità indescrivibili, ma noi eravamo sempre rispettato perché capivano che li aiutavamo e che rappresentavamo lo Stato. Il mio “successo” in quella circostanza fu che ottenni dall’Unimik un aumento di stipendio per i pompieri, perché non erano accettabili 50 marchi al mese per chi rischiava la vita. Disegnai anche lo stemma dei pompieri kosovari, che ancora oggi è in uso…

Poi creò questa Fire Rescue non governmental organization…

Sì, riconosciuta dall’Onu e composta da personale proveniente da 14 nazioni. Ci chiamano ovunque per verificare lo stato dei pompieri locali ed eventualmente addestrarli: Haiti, Montenegro, Libano, Dubai, fino all’Iraq, dove tuttora sto lavorando addestrando figiani e nepalesi. Proprio sabato torno a Baghdad.

Che problemi ci sono da questo punto di vista ora?

C’è un problema sottovalutato: ossia che le basi delle Nazioni Unite sono ad altissimo rischio, perché sono tutte di pannelli lignei, se scoppia un incendo non è praticamente possibile fermarlo. E poi l’ambiente iracheno è quello che è: per la sicurezza giro con una vecchia automobile con targa irachena, perché andare sotto scorta ti rende un bersaglio. Comunque abbiamo già contatti col governo per addestrare in futuro i vigili del fuoco locali; non solo, ma stiamo anche facendo acquisire mezzi ed equipaggiamenti italiani, che a mio avviso sono i migliori.

Ecco, secondo la sua non trascurabile esperienza, qual è lo stato dei vigili del fuoco italiani?

Io dico solo che un pompiere italiano vale dieci di quelli degli altri Paesi. Sono bravissimi, così come la Protezione civile che, al di là delle polemiche di questi giorni, è tra le migliori al mondo. Basterebbe sincronizzare un po’ il tutto. Il problema semmai è il numero degli effettivi: sa quanti vigili del fuoco abbiamo in Italia? Circa trentamila, che vuol dire circa seimila di turno. A Roma saranno cento, meno quelli obbligatori per gli aeroporti. Operare in queste condizioni è difficile, eppure se la cavano benissimo. Noi italiani spesso ci autoflagelliamo, ma siamo i migliori del mondo…

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