Addio a Schoendoerffer regista che rese omaggio ai codici dell’onore
Lunedì scorso nella corte d’onore de Les Invalides, il primo ministro Fillon, il ministro della difesa Longuet e il ministro della cultura Mitterand, hanno reso omaggio a Pierre Schoendoerffer, scomparso pochi giorni prima. Un evento insolito. Per la prima volta il cuore de Les Invalides — lì dove dorme Napoleone, lì dove la Francia onora solo i suoi soldati migliori — ha offerto un tributo a un artista. A un uomo di cinema.
Perché? Schoendoerffer non era solo un ottimo scrittore, un grande regista, un vincitore — uno dei pochi in Francia — di un Oscar. Era un personaggio atipico nel panorama culturale transalpino. Era un uomo “inattuale”, roccioso come un menhir bretone. Era, soprattutto, il testimone di un’epopea controversa. Gloriosa e amara.
Come notava Jean François Rauger su Le Monde, «il Maestro era nel cuore del cinema francese e, al tempo stesso, rimaneva irrimediabilmente un individualista, un solitario». Nonostante una lunga vita passata dietro alla macchina da presa, il regista non amava — accidiosamente ricambiato — il mondo dello spettacolo, il chiasso dei media, la superficialità degli ambienti del cinema.
Per capire Schoendoerffer e comprenderne l’opera è necessario ripercorrere la sua vita straordinaria, le sue scelte coraggiose, le sue sfide impossibili. Giovanissimo, Pierre s’imbarca su un veliero in cerca dell’avventura, ma un giorno del 1950 legge la storia di un cameramen dell’esercito, caduto nella lontana Indocina francese, in una guerra esotica, fascinosa. Schoendoerffer non ha dubbi e si arruola nel servizio cinematografico militare. È il suo incontro con il cinema.
Dal 1952 al 1954, il giovane volontario è sul campo di battaglia e condivide la sorte del corpo di spedizione francese e il suo sanguinoso naufragio tra le risaie e i monti del Vietnam. Il suo obiettivo racconta le gesta dei parà ma anche l’orrore del combattimento, la fatica delle marce, l’angoscia dei feriti. Tutto si conclude a Dien Bien Phu, la terribile battaglia che inghiotte nel fuoco l’Indocina francese e i suoi difensori. Caduto prigioniero, Schoendoerffer conosce l’inferno dei campi comunisti ma, miracolosamente, sopravvive e rientra in una Francia indifferente. A Parigi la disfatta asiatica non interessa o infastidisce.
L’ex caporal maggiore non ci sta. Riprende i suoi strumenti e riparte verso i fronti di guerra: va in Marocco e in Algeria, assiste al collasso dell’impero, scrive reportage per Paris Match e i suoi primi romanzi. Nel 1958 incontra Georges de Beauregard, il produttore di Godard, che lo aiuta a entrare nel mondo del cinema e a realizzare nel 1963 La 317° section.
Il film — adattamento del suo omonimo romanzo di Schoendoerffer — racconta l’anabasi di una pattuglia francese, spersa nelle foreste del Laos e inseguita da un nemico invisibile quando temibile. Le riprese sono pesantissime: la troupe rimane isolata settimane nella giungla con i rifornimenti ridotti al minimo. «Ho imposto a tutti ritmi militari», racconterà il regista, «non si può fare un film sulla guerra in mezzo ai confort». Un avvertimento che John Milius e Francis Ford Coppola — grandi ammiratori del cineasta francese — terranno ben presente durante le riprese di Apocalypse now. Il lungometraggio — un racconto secco e grandioso, mirabilmente interpretato da Jacques Perrin e Bruno Cremer e considerato a tutt’oggi uno dei migliori film bellici della storia del cinema — è premiato nel 1965 a Cannes. È il successo.
Negli anni Sessanta Schoendoerffer gira un poliziesco — divertente ma modesto —, pubblica romanzi di successo come Addio al re (con cui vince il Premio letterario Interallié), ma non scorda l’Indocina. Nel 1968 è nuovamente in Vietnam; questa volta è la volta degli americani e il nemico è lo stesso, i viet, i comunisti. Memore della sua esperienza giovanile, il regista rimane scettico: conosce il paese, la “guerra rivoluzionaria” e, dopo Dien Bien Phu, diffida dell’arroganza dei generali e della stupidità dei politici. Preferisce raccontare le storie dei soldati in prima linea — i primi a cadere e gli ultimi a essere ricordati — e gira La Section Anderson, l’esperienza tragica di un plotone di marines con cui otterrà nel 1968 l’Oscar per il miglior documentario. Nel 1976 vince il prestigioso Grand Prix de l’Académie Française con il suo capolavoro letterario Le Crabe-tambour, che trasforma subito in una pellicola di successo che — grazie a un superbo Jean Rochefort — miete tre Cesars (l’Oscar francese) e un premio a Cannes.
Il film fa discutere.Le Crabe-tambour, realizzato in condizioni estreme su una vecchia nave da guerra al largo di Terranova, è una storia di uomini di mare e di onore ed è apertamente ispirata alla figura di Pierre Guillaume, uno degli eroi d’Indocina e Algeria e — al tempo stesso — uno dei protagonisti del fallito putch militare del ’61 e un militante dell’OAS. Un fascista, un proscritto. La critica progressista non riesce a opporsi ai riconoscimenti, ma comincia a stendere un “cordone sanitario” attorno a Schoendoerffer; il regista non se ne preoccupa ma i produttori iniziano a negarsi al telefono.
Un ricordo personale. Le Crabe-Tambour esce in Italia nel 1980 con il titolo L’Uomo del fiume. Nonostante i premi, il film è mal distribuito e peggio pubblicizzato. Lo vedo in un cinemino milanese ormai sparito. Mi piace. Giorni dopo, con l’arroganza del giovane redattore chiedo a Leo Pasqua — un buon critico cinematografico, allora collaboratore della testata per cui lavoravo — il motivo di tanto ostracismo. Con imbarazzo, il recensore mi risponde: «Certo, è un film bellissimo. Ma è un film fascista. Non l’hai capito, poi se scrivo qualcosa non mi invitano più ai festival. Non sono mica matto, devo lavorare…».
Ma Schoendoerffer non è solo, ha ancora degli amici come John Milius, che nel 1988 porta sul grande schermo Addio al re, con uno splendido Nick Nolte. Un altro successo che permette all’ormai anziano regista di realizzare nel 1992 la pellicola della vita, Dien Bien Phu, un omaggio ai caduti nella grande battaglia. A chi gli chiede di spiegare le motivazioni risponde semplicemente: «Glielo dovevo, sono un sopravvissuto, sono quindi un debitore».