Dickens? Ispirato da Gesù, non da Marx

28 Mar 2012 19:48 - di

Uno dei meriti del bicentenario della nascita di Charles Dickens con il suo portato di eventi più o meno celebrativi è quello di aver indotto la critica letteraria a mettere definitivamente nel dimenticatoio le oziose disquisizioni degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, tra l’altro tutte interne al pensiero marxista, circa le valenze rivoluzionarie o riformiste dell’opera dickensiana e del suo realismo antivittoriano ed “anticapitalista”.
Dacché sono iniziate le manifestazioni per ricordare il noto e grande romanziere inglese, l’attenzione di una cospicua parte della critica si è soffermata su un altro aspetto della sua opera non meno significativo e rilevante.
La considerazione che nei romanzi di Dickens si legge verso la condizione degli umili e dei poveri è semplice e mera conseguenza del filantropismo protestante e liberale del XIX secolo? Oppure, in qualche maniera, risulta compatibile con una sua recondita e nascosta visione cristiano-cattolica?
Certo, intendere la critica come una sorta di dosaggio o di misurazione dei livelli di ideologia o di visione religiosa in un’opera letteraria rischia di non rendere giustizia né al valore dell’opera né ad una funzione nobile che la critica e la saggistica possono comunque esercitare. In questo caso però il problema è comprendere “l’umanesimo” di Dickens nei suoi lati più riposti e meno noti, emancipandolo dall’accusa di “sentimentalismo di maniera” che certa critica di stampo materialista ha voluto attribuirgli.
È noto a tutti come Dickens sia stato uno degli autori più letti e preferiti del cattolicissimo Gilbert K. Chesterton, tanto da dedicargli una raccolta di saggi (Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura) e da emularlo in alcune tecniche narrative, per esempio: l’utilizzo per i propri personaggi di nomi che ne simboleggiavano e riassumevano la personalità. Nell’ultimo numero della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, Padre Ferdinando Castelli ha pubblicato un saggio, dal titolo Charles Dickens: poeta della tragicommedia umana, in cui ridimensiona fortemente l’eventuale derivazione cristiana dell’opera dickensiana, ritenendo che in essa vi sia soltanto una qualche vaga eco di cristianesimo. Sicuramente vi è un genuino sentimento di condivisione e di accoglienza degli altri, in modo particolare degli umili e dei poveri, ma non c’è però alcun cenno al Mistero dell’Incarnazione, alla presenza di Cristo Redentore, alla funzione salvifica dei sacramenti. La mancanza di questi  ultimi elementi nulla toglie al fatto che la weltanschaung dello scrittore londinese potesse risultare significativamente impregnata di cristianesimo, almeno secondo il senso che a tali dinamiche diedero Benedetto Croce col suo celebre saggio Non possiamo non dirci cristiani e la scrittrice contemporanea americana Flannery O’ Condor coi suoi personaggi “cristiani malgrado loro stessi”.
Sulla rivista Catholic Herald il direttore William Oddie ha rivelato l’esistenza di una lettera di Dickens all’amico e biografo John Foster su un’esperienza vissuta a Venezia, durante il suo viaggio in Italia nel 1844.
Si badi: nel 1844 Dickens non aveva ancora scritto alcuni dei suoi romanzi più famosi, come David Copperfield, Little Dorritt, Il Nostro comune amico, Tempi difficili. In questa lettera egli narra di aver avuto in sogno, nella città della laguna, una visione di una bellissima donna  a cui egli pose domande sulla religione. Questa donna, con voce di «una celestiale tenerezza», gli aveva confermato che per lui era «il cattolicesimo romano la religione migliore». Nella scena del sogno era presente anche un altare con annessa celebrazione di una messa e suono di campane. Più avanti negli anni Dickens confidò sempre all’amico biografo John Foster di aver ipotizzato che il suo scrivere a favore dei poveri e dei sofferenti fosse il risultato di una superiore forza ispiratrice “indipendente” da lui. In Canto di Natale, del 1843, la “conversione” dell’usuraio Scrooge è mediata da un sogno e dall’apparizione di un bambino vestito con «una tunica di un bianco immacolato» e con «un vivido raggio di luce che si sprigionava dal sommo della sua testa»; fatto che sicuramente, nell’economia della prosa di Dickens, spesso carica di valenze simboliche, una qualche allusione  a Gesù Bambino doveva pur contenerla.
Ci sono altri elementi che possono spiegare la particolare caratterizzazione dell’umanesimo dickensiano e tali elementi si possono rinvenire già nel suo giovanile apprendistato letterario, allorché avidamente leggeva Miguel de Cervantes e il suo Don Chisciotte, Honorè de Balzac che, a differenza del romantico – illuminista Victor Hugo, frequentava gli ambienti letterari vicini alla restaurazione francese. Raymond Williams, uno dei critici che negli anni ’60 e ’70, fu molto coinvolto nel dibattito circa la portata rivoluzionaria del realismo sociale del narratore inglese, sostiene che in Hard Times, il romanzo di più intensa critica sociale scritto da Dickens: «Si salvano solo il passivo e il sofferente, l’umile che erediterà la terra ma non Coketown e la società industriale. Questo sentimento primitivo, quando è unito alla ferma convinzione di aver scoperto tutto il resto, è una posizione conservata dall’adolescenza. L’innocente fa vergognare il mondo adulto, ma anche lo rifiuta nella sua essenza» Siamo proprio certi che non vi sia un approccio religioso e cristiano in questa visione degli “umili e dei sofferenti”?

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