Gli eroi di Dickens dimenticati, ora è tempo di vampiri e amori dark

23 Mar 2012 17:25 - di

Quali sono oggi gli eroi (o gli antieroi) della letteratura per ragazzi? Sulla scia della Fiera di Bologna, che annualmente fa il punto su questo settore, l’interrogativo è d’obbligo. E non si tratta solo di una curiosità o di un gioco intellettuale: ciò che leggono gli under18 è molto importante, sia per la loro formazione sia per il loro immaginario e di sicuro avrà modo di influenzarne le scelte da adulti. Tanto più che il mercato del libro per ragazzi è l’unico che può vantare il segno più alla voce ricavi, risultando in crescita del 2% rispetto all’anno precedente. Ma c’è dell’altro: nell’anno in cui si celebra il bicentenario della nascita di Charles Dickens è quasi impossibile eludere il confronto tra i suoi orfani che lottavano per un nuovo e migliore equilibrio sociale e i personaggi che fanno sognare oggi schiere di adolescenti, dal maghetto Harry Potter agli hobbit di Tolkien fino ai vampiri buoni di Twilight.
Dickens – come afferma Renato Barilli nel suo La narrativa europea in età moderna – si rese conto dopo la prosa del Circolo Pickwick che non poteva più prescindere dalle figure dei reietti sociali, perché anche in Inghilterra occorreva puntare l’attenzione sui "miserabili". E così il ruolo di protagonista «passa da un facoltoso membro della classe media a un esponente minimo e derelitto nella scala sociale, l’orfano, il diseredato già all’atto della nascita». È così che nasce Oliver Twist, che poi evolverà nel più complesso e potente David Copperfiled. Oggi questi personaggi sono un po’ polverosi, certo poco ammirati, di sicuro lontani dai gusti dei giovanissimi, oggi che – come ha detto Bianca Pitzorno – i romanzi tendono a copiare i videogame. Eppure la lettura di quelle pagine risulta molto istruttiva, anche e soprattutto per gli adulti, al punto che c’è anche chi sottolinea che è grazie a Dickens che i lati più ombrosi e nefasti del sistema capitalista sono stati squadernati in forma di letteraria denuncia sociale. Non a caso proprio allo scrittore inglese dedica molte delle sue riflessioni Geminello Alvi (Il capitalismo. Verso l’ideale cinese) promuovendolo "filosofo del capitalismo", in quanto i suoi personaggi aspirano a qualcosa di più della sobria economia sostanziale. Le loro dinamiche interiori sono anche la molla del sistema. Finezze, si dirà,che un ragazzo, il quale legge soprattutto per piacere, per divertimento, non è tenuto a cogliere. 
Allo stesso tempo Dickens, pur illustrando i problemi sociali del tempo (la povertà delle masse, gli orrori dei quartieri poveri, la pessima situazione delle scuole e dell’assistenza medica, la durezza delle leggi per i poveri e l’inadeguatezza delle misure pensate per aiutarli) è rassicurante e "sentimentale". Il suo non è un mondo immerso in una dimensione tragica, nessuna catastrofe pone fine ai conflitti e annienta l’eroe dei suoi romanzi. Chi pratica la virtù avrà la sua ricompensa contro i malvagi. La stessa critica sociale non andò mai al di là della protesta filantropica, che chiedeva riforme e previdenze, ma senza mettere in discussione l’assetto politico-sociale complessivo dell’Inghilterra capitalistica del tempo. I suoi personaggi mantengono intatto l’appeal dell’eroe che si concede al destino nella speranza di cambiarlo. Gli orfani cercano un’identità e intraprendono un percorso interiore (spesso simboleggiato da un viaggio fisico che compiono i protagonisti, come Oliver e David). Quella di Dickens è una letteratura dai risvolti catartici e consolatori: gli orfani, i "miserabili", sono protagonisti di lunghe e faticose risalite secondo un paradigma che funziona anche in altri romanzi del tempo, anch’essi divenuti classici per ragazzi: si pensi al Remy del Sans famille (1878) di Héctor Malot oppure ai protagonisti degli scritti di Mark Twain, Tom Sawyer (1876) e Huckleberry Finn (1884). Pagine ritenute le più adatte ai giovani lettori perché seguono volontariamente la strategia ideologica e narrativa del romanzo di formazione: portare il lettore, attraverso l’alter ego cartaceo, a compiere un percorso di crescita spirituale.
Il romanzo di formazione nacque in Germania con Wolfgang Goethe e il suo Wilhelm Meister ma fu Wilhem Dilthey nel 1906 a darne una definizione duratura e soddisfacente: il bildungsroman consiste nella «storia di un giovane uomo che fa il suo ingresso nella vita avvolto da una felice incoscienza, cerca anime gemelle, incontra l’amicizia e l’amore, si scontra però con le dure realtà del mondo e, tra molteplici esperienze di vita matura, ritrova se stesso e si assicura del suo compito nel mondo».
Come si deduce da questa definizione anche la saga di Harry Potter, che ha affascinato giovani lettori (e non solo) a tutte le latitudini, corrisponde a questa struttura. Anche Harry è un orfano, anche lui è totalmente ignaro di come va il mondo e di quali sono le leggi che lo regolano. Orfano dei genitori e cresciuto sotto l’oppressiva tirannia degli zii Dursley, che non gli hanno mai permesso di avere amici o anche solo conoscenti, Harry viene all’improvviso trasportato nell’universo della magia, un mondo che non conosce e  dove la sua vita è in costante pericolo. Anche lui, come avviene con tutti i protagonisti dei romanzi di formazione, deve fare appello alle sue capacità, portarle alla luce con fatica, per affrontare lo scontro con l’altro da sé e deve farlo senza l’aiuto dei genitori o di una guida, sfruttando le relazioni che il destino gli procura: l’amicizia con Ron Weasley, la benevolenza del preside di Hogwarts, Albus Silente.
In Italia non abbiamo avuto un Dickens, abbiamo però letto Emilio Salgari: uno scrittore che ha saputo superare gli stereotipi pedagogici di De Amicis sperimentando l’equivalenza di lettura e avventura. Uno scrittore, come è stato sottolineato, per nulla preoccupato di rompere gli schemi: «I suoi eroi e le sue eroine erano spesso coppie miste ante litteram». Inoltre  era convinto che «nulla nell’arte ci è di assoluto e (…) il bello è ciò che piace, malgrado ogni pedagogia di critici più o meno sentimentali».
A partire dal successo di Harry Potter e delle sue avventure, tuttavia, l’esotismo non è più considerato un ingrediente fondamentale della letteratura per ragazzi. Per costruire una narrativa “credibile” rivolta alle giovani generazioni c’è bisogno della dimensione del fantastico, elemento che spiega anche il ritorno in grande stile di Tolkien e di Lewis. In ogni caso, se ci si sofferma sull’insegnamento di fondo trasmesso da questi scrittori, si riscontrano alcune affinità, e non di poco conto, tra J.K. Rowling, ideatrice delal saga di Harry Potter, e i più noti autori de Il Signore degli Anelli e Le Cronache di Narnia.
«Non sono le grandi gesta eroiche quelle che contano, che valgono  – scrive Paolo Gulisano nella prefazione al libro di Antonio Carriero Elementi di psicopedagogia nell’antica scuola di Hogwarts (ed. Il Cerchio) a proposito delle storie di Harry Potter – ma piccoli gesti fatti per altruismo anche dalle persone “meno dotate” sono molto più preziosi. L’accento è posto non sul potere del successo, ma sull’umiltà del dono di sé; a vincere è la debolezza, non la forza dei muscoli. Evidente è il richiamo a un altro grande autore cristiano dell’Inghilterra del Novecento, John Ronald Reuel Tolkien, i cui eroi sono i piccoli, umili Hobbit, l’esatto contrario dei superbi supereroi che hanno la pretesa di farsi totalmente da sé e di dominare il mondo». Carriero si spinge ancora oltre, giungendo a paragonare i metodi educativi del preside di Hogwarts a quelli di don Bosco: «Il metodo di don Bosco è conosciuto come “metodo preventivo” e mira, per questo, a prevenire quelle azioni di trasgressione delle regole che potrebbero manifestarsi nei giovani… Tale sistema è realizzabile solo mediante la presenza di un insegnante capace di sorvegliare e richiamare al momento opportuno lo studente. Sorvegliare e richiamare, però, nel modo giusto. Il motto di don Bosco “utili cittadini e buoni cristiani”, sembra incrociarsi con l’obiettivo educativo ideale del Preside di Hogwarts, per il quale il motto potrebbe essere “utili cittadini e buoni maghi”».
Il successo della saga di Harry Potter è senz’altro anche dovuto al fatto che J. K. Rowling sceglie come ambientazione principale delle vicende narrate una scuola di magia che tuttavia presenta dinamiche simili a quelle presenti nelle scuole frequentate dai lettori dei suoi libri. Un aspetto da non sottovalutare perché rafforza il sentimento di coinvolgimento di chi segue le tappe della “formazione” di Harry Potter: dalla lettura, secondo Antonio Carriero, si ricava il modello di una scuola-comunità in cui le pari opportunità sono rispettate, in cui i metodi che risultano più coinvolgenti sono quelli adottati dai maghi buoni, che non esercitano un’autorità repressiva, in cui infine viene praticato con successo il reciproco insegnamento.
Fenomeno successivo ma non di minore ampiezza, il successo delle avventure di Edward e Bella, i protagonisti di Twilight e dei romanzi successivi, avvolti in una cornice di romanticismo dark, ha fatto discutere sull’impatto formativo di una storia di vampiri (sia pure anomali) sui lettori più giovani. È possibile, in altre parole, affidare alla sola forza dell’amore ogni funzione di redenzione in una storia che dovrebbe essere edificante e risulta solo avvicnente? A dirimere la questione è da ultimo intervenuto L’Osservatore romano, promuovendo i romanzi di Stephanie Meyer. Non è il ‘vampiro’ o il sangue che attrae i ragazzi in questa serie di libri-film, ma l’amore giovane e fedele di Edward e Bella: di sangue, vampiri e amori in cui nessuno crede sono pieni i rotocalchi, ma la storia di un amore che «non usa e getta l’altro, come invece invita a fare la cultura postmoderna, attrae e colpisce».
Al contrario, «il panorama televisivo è pervaso dal sentimentalismo delle lacrime facili, sotto forma di reazioni spropositate, di malattie ostentate come spettacolo da libro dei record, di scienza vista come qualcosa che ci terrorizza per i suoi rischi o spacciata come una magica risoluzione ai problemi, di catastrofi annunciate».
L’unico rimedio a questa deriva «è mostrare e raccontare con arte la realtà, l’eroismo quotidiano di chi vive con una malattia, e la colpevole trascuratezza di chi potrebbe occuparsene a livello sociale e politico; l’eroismo di un infermiere o di una maestra; la forza di mille madri e padri».

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