La Difesa scende in campo contro le malattie rare
«La Difesa in tempo di pace ancora una volta si pone a fianco dei cittadini, non solo durante le alluvioni o i terremoti o per affiancare le forze dell’ordine in strada, ma anche per la tutela dei più deboli curandoli con farmaci che sono esclusivamente prodotti dall’Agenzia Industrie Difesa. E chi è più debole di un malato colpito da una malattia rara o da una grave infezione come la malaria?». Marco Airaghi, direttore generale dell’Aid, illustra il ruolo sui generis dell’Agenzia che in un momento di crisi economica diffusa riesce a ottimizzare le risorse ed è in grado di operare anche nel mercato facendo emergere nuove potenzialità. «La capacità di coniugare procedure e modelli militari con quelli civili e di sviluppare attività innovative – sottolinea – sono risultati fattori di successo dell’Agenzia, il cui valore della produzione venduta per addetto nel 2010 è di 3,04 volte quello del 2001».
Direttore, quali sono le competenze dell’Agenzia?
L’Aid, istituita come ente con personalità giuridica di diritto pubblico, è posta sotto la vigilanza diretta del ministro della Difesa per razionalizzare, ristrutturare e ammodernare i suoi otto centri di produzione secondo criteri industriali, in una logica di creazione di valore per lo Stato e per la collettività fino alla possibilità di destinarli ad asset di future società per azioni. È una gestione che deve tentare di affrontare nel modo più privatistico possibile stabilimenti che sono statali.
È una formula molto innovativa…
Certamente. E serve per tentare di migliorare il risultato produttivo ed emanciparsi dal contributo dello Stato. In sostanza, l’obiettivo è quello di arrivare a produrre senza pesare sulle tasche dei cittadini, e questo risultato si sta ottenendo cercando nuove forme di business per gli stabilimenti le cui produzioni sono poco richieste dalle Forze armate e aprendosi a forme di collaborazione tra pubblico e privato.
Di quali stabilimenti stiamo parlando?
Si tratta degli stabilimenti militari: Munizionamento Terrestre di Baiano, Ripristini e Recuperi del Munizionamento di Noceto, Spolette di Torre Annunziata, Chimico Farmaceutico di Firenze, Produzione Cordami di Castellammare di Stabia, Propellenti di Fontana Liri, ai quali si aggiungono lo Stabilimento Grafico Militare di Gaeta e l’Arsenale Militare di Messina.
Torniamo all’aspetto farmaceutico; come mai un’Agenzia della Difesa che in teoria si dovrebbe occupare di armi ha anche una branca destinata ai farmaci?
L’aspetto del farmaco è curato dall’Istituto Chimico Farmaceutico di Firenze. Lo stabilimento già esisteva in epoca pre-unitaria, oggi il suo intervento si è concentrato principalmente a due produzioni: gli zaini-kit per i medici nei teatri operativi di guerra e la collaborazione con il ministero della Salute in caso di emergenza nazionale. Per esempio, il farmaco antinfluenzale “Oseltamivir” contro la pandemia da virus Ah1n1 è stato incapsulato tutto da noi. L’Istituto si occupa anche della produzione particolare di quelli che vengono definiti “farmaci orfani” per malattie rare che l’industria farmaceutica abbandona non considerandola sufficientemente remunerativa. D’intesa con l’Agenzia italiana del farmaco noi produciamo alcuni farmaci che altrimenti non si troverebbero più nel mercato.
Per esempio quali?
Il ketoconazolo. Inoltre siamo gli unici produttori di chinino, ovvero la clorochina che è l’unico rimedio contro la malaria. La scorsa settimana abbiamo salvato una giornalista finita in coma perché aveva contratto la malaria. Immediatamente abbiamo preparato le dosi, le abbiano consegnate all’ospedale salvandole la vita. In sostanza l’Istituto di Firenze funge da officina farmaceutica dello Stato.
Concretamente l’Agenzia come agisce?
Negli anni c’è stata un’importante riduzione dei costi comprimibili, si è passati a triplicare il rapporto tra valore della produzione e personale addetto dal 2001-2012. Il fatturato è aumentato del 50% e contemporaneamente il personale è stato dimezzato senza licenziamenti solo grazie a naturali pensionamenti. Il contributo dello Stato si è così dimezzato.
Oltre alla riduzione dei costi c’è anche la ricerca di nuovi mercati?
Certo. Nello stabilimento grafico di Gaeta è stato avviato il progetto di dematerializzazione degli archivi della Difesa. Prendiamo chilometri di faldoni di documenti li scannerizziamo e li digitializziamo liberando di fatto stabili anche di pregio che sono valorizzati e poi possono essere alienati. C’è, poi, lo stabilimento di Torre Annunziata, dove si realizzano le spolette delle granate, produzioni ormai di poco interesse per la Difesa, ma lì da poco è partita la nuova attività di riconversione ad altri usi dei mezzi dismessi dalle forze armate. Per esempio, i Defender dei carabinieri anziché essere rottamati vengono riconvertiti a uso civile e messi in vendita. Garantendo in questo modo un futuro occupazionale in un territorio dove ci sono poche alternative lavorative. Poi negli stabilimenti di Noceto e Baiano distruggiamo le armi obsolete e quelle bandite dalle convenzioni internazionali, come le bombe a grappolo e le mine antiuomo.
Come sono cambiati gli sbocchi commerciali?
Nel 2003 noi fatturavamo il 91% per la Difesa e il 9% per il mercato esterno privato. Nel 2010 si è passati al 72% per la Difesa e 28% per i privati. Il mercato esterno è in crescita e questa tendenza nei prossimi anni è destinata ad aumentare portando così più denaro fresco nelle casse dello Stato.