Quel gelo caduto su Giuseppe Berto, scrittore scomodo
Sono trascorsi sessantacinque anni dall’uscita del romanzo Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, eppure, nonostante l’apprezzamento internazionale seguito alla sua pubblicazione, questo scrittore oggi può essere annoverato nella folta schiera degli autori dimenticati o volutamente rimossi dalla cultura ufficiale. Sì, perché in pochi conoscono l’opera di Berto, che comprende una vasta produzione letteraria e collaborazioni cinematografiche di alto livello.
Il cielo è rosso, che si sarebbe dovuto intitolare La perduta gente, viene pubblicato nel ’47 da Longanesi e diventa subito un caso letterario internazionale. Il romanzo narra la vicenda di un gruppo di ragazzi che vivono in un paesino al tempo della seconda guerra mondiale e che le bombe americane costringono a darsi ai lavori più umilianti pur di sopravvivere. Il libro traccia anche la possibilità di trovare una solidarietà generazionale fra le macerie della guerra, perché i protagonisti si aiutano l’un l’altro per non cedere. Berto, però, è un autore pessimista e alla fine anche l’ultimo fra i ragazzi che danno corpo al libro cede, sentendosi estraneo rispetto al mondo e alla nuova società italiana nata dalle bombe e concedendosi infine alla morte: un finale, che con molta probabilità sottolinea anche il senso di estraneità provato dallo stesso autore verso l’Italia figlia delle devastazioni e delle macerie.
Il romanzo viene lodato da Ernest Hemingway e nel 1948 vince anche il Premio Firenze per la letteratura, assegnato da una giuria composta da grandi autori italiani, fra cui Eugenio Montale e Aldo Palazzeschi. Ma non è tutto, perché dopo il successo riscosso con Il cielo è rosso, Berto si aggiudica per ben due volte il Premio Campiello: la prima nel 1964 con Il male oscuro, che in precedenza era stato rifiutato da diverse case editrici, ma con cui vince anche il Premio Viareggio e nel 1978 con La gloria, il suo ultimo libro, nelle cui pagine lo scrittore trevigiano riabilita la controversa figura di Giuda Iscariota. Il male oscuro, peraltro, lo consacra fra i grandi della letteratura e nel 1989 dal libro viene tratto anche un film diretto da Mario Monicelli.
Nonostante questi successi letterari, dalla morte di Berto in pochi si sono ricordati di lui, se non in rare occasioni ufficiali, e una soffocante cappa di silenzio avvolge ancora oggi questo autore. Per spiegarne le ragioni si può forse dare credito alla tesi di una critica letteraria fin troppo distratta e identificata nei nuovi e luccicanti miti della contemporaneità, ma con una certa probabilità la spiegazione è ben più subdola e di natura politico-ideologica: durante il Ventennio, infatti, lo scrittore aderisce convintamene al Fascismo e negli anni successivi non rinnega mai le ragioni della propria scelta politica, che diviene anche motivo esistenziale. L’oblio forzato, dunque, non sarebbe causato dall’improvvisa perdita di memoria dei critici letterari, ma dall’odio ideologico che continua ad animare una certa parte dell’establishment pseudo-culturale italiano.
Nel 1929, Berto entra a far parte degli Avanguardisti, quindi nel periodo universitario aderisce ai Guf, per poi vestire la camicia nera con la Gioventù Italiana del Littorio, di cui diviene dirigente.
Le sue idee lo spingono anche a combattere per la patria in varie occasioni: nel 1934 parte volontario per l’Africa Orientale, dove partecipa alla Guerra d’Abissinia e al termine della quale viene decorato con due medaglie al valore. Si laurea nel 1940, ma allo scoppio del secondo conflitto mondiale torna in armi. In quello stesso anno pubblica il racconto intitolato La colonna Feletti, dedicato a quattro suoi camerati caduti in Africa.
Dopo una breve parentesi dedicata all’insegnamento, Berto capisce che la propria strada è un’altra, perché se l’Italia è in guerra, compito dei suoi figli è di combattere per la Patria: si arruola così nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e combatte in Africa Settentrionale, distinguendosi coraggiosamente in Libia e Tunisia. Nello stesso periodo entra a far parte del X Battaglione M delle Camicie Nere e nel 1943 viene fatto prigioniero. Sull’esperienza della seconda guerra mondiale, nel 1955 scriverà anche il libro Guerra in camicia nera.
A seguito della cattura lo scrittore viene internato in diversi campi di concentramento “alleati” riservati ai prigionieri delle forze dell’Asse che non avevano tradito l’Italia accettando di scendere a patti con il nemico. Viene quindi spedito nel celebre campo di Hereforod nel Texas, uno dei più noti “fascists criminal camps”, di cui ancora oggi abilmente la storiografia ufficiale preferisce non parlare.
Nel periodo della detenzione, incontra diversi altri combattenti che non si erano allineati con il nemico scegliendo la galera, piuttosto che tradire. La prigionia fa rinascere in lui il desiderio di tornare a scrivere: è qui che dà vita a un lavoro in prosa in stile dannunziano, nel quale sostanzialmente esalta l’Italia, e sempre nel campo di concentramento americano scrive vari racconti che molti anni dopo vengono pubblicati da Longanesi nella raccolta Un po’ di successo. Nel 1944 pubblica il libro Le opere di Dio e in quello stesso periodo incomincia a elaborare il romanzo destinato a diventare un successo con il titolo Il cielo è rosso.