Nicolò Amato: «Sì, con la mafia ci fu una tacita intesa»
«Sono moralmente indignato di quello che è accaduto in Italia in quegli anni. Sono arrabbiato, dispiaciuto, affranto, traumatizzato, ma non accuso nessuno, mi rivolgo ai giudici, ai commissari dell’Antimafia: giudicate voi. Io vi racconto fatti. Fatti oggettivamente inquietanti». Nicolò Amato i nomi li ha pronunciati, però. «Solo per documentare quello che ho raccontato, non tocca a me individuare le responsabilità», insiste l’ex magistrato, che per dieci anni, dall’83 al ’93, fu a capo delle carceri italiane, prima nell’infuocata stagione del terrorismo, poi in quella sanguinaria di Cosa Nostra, di Falcone, Borsellino, delle stragi di uomini e di opere d’arte. I nomi che oggi evocano trattative segrete con lo Stato – su cui finalmente si indaga – sono quelli di Scalfaro, Ciampi, Martelli, Mancino, Conso, di governi di centrosinistra che negli anni Novanta rincularono di fronte alla mafia, di figure istituzionali di alto profilo un po’ pavido, di ministri che ritennero di giocare in difesa, liberandosi di pedine ingombranti. C’è tutto questo dietro la vicenda umana e professionale di Amato, ex direttore del Dap, silurato nel giugno ’93 al termine di un anno e passa di politiche penitenziarie durissime, successive alle prime stragi di mafia. Oggi Amato ha ricostruito quella stagione che lo vide prima protagonista, poi epurato, in un memoriale consegnato all’Antimafia e in un libro di imminente presentazione (il 3 luglio, a Roma), “I giorni del dolore, la notte della ragione”(Armando Editore). «Racconto quegli anni in cui posso affermare di aver attuato nei confronti della mafia la risposta carceraria più dura che la legislazione del tempo consentisse. Con il risultato di essere mandato via, senza un perché», racconta Amato.
Perché parla solo oggi?
Perché ho ricostruito quegli anni grazie a documenti di cui prima neanche conoscevo l’esistenza. C’è anche un capitolo postumo, inserito in extremis, che contiene una lettera anonima della mafia a Scalfaro in cui si chiede la mia testa. L’ho scoperta per caso qualche mese fa in un libro di un collega, mi ha illuminato. Quella missiva arrivò nel febbraio ’93, quattro mesi dopo fui cacciato.
Quale situazione lasciò?
Da direttore del Dap, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, avevo fatto riaprire i penitenziari più duri, l’Asinara e Pianosa, vi avevo fatto trasferire i mafiosi più pericolosi, avevo fatto firmare a Martelli 532 decreti di applicazione del 41bis e ne avevo emanati personalmente altri 567. Quando andai via, il 4 giugno del ’93, c’erano oltre 1400 mafiosi detenuti al 41bis. Qualche mese dopo, solo 400. Questi sono i fatti.
Martelli quindi l’aveva assecondata sul carcere duro?
Sì, ma poi furono i suoi uffici a esprimere parere negativo sulla mia proposta di estendere il 41bis a tutti i 5000 detenuti per mafia, non solo ai più importanti, dopo la strage di via D’Amelio. Ci furono pareri meno duri del mio.
Veniamo ai fatti inquietanti.
Dunque, io vengo mandato via il 4 giugno ’93, dopo la lettera anonima al Quirinale, senza spiegazioni. Chi venne dopo di me cambiò completamente la politica penitenziaria sul 41bis. Un caso?
Un caso che ha posto all’Antimafia, ma non è stato convocato.
Aspetto fiducioso.
Magari non l’aiuta la sua ricostruzione dei fatti nella parte relativa a Scalfaro. Il presidente Pisanu è un ex dc di lungo corso.
A me interessa solo che stia venendo fuori la verità, di Scalfaro ho sempre avuto stima, io racconto i fatti.
Però lei parla di un morto che non può difendersi.
No, queste cose ho iniziate a raccontarle ai magistrati ben prima che Scalfaro morisse, sono sereno.
Cosa accadde di così grave in quegli ultimi mesi del suo mandato al Dap?
Come detto, dopo la mia sostituzione, a partire dal 26 giugno del ’93 fu sposata la linea della limitazione del carcere duro a pochissimi casi, privilegiando la preoccupazione della tensione che il 41bis avrebbe creato, più che l’elemento repressivo nei confronti della mafia. Ma andiamo alla lettera, che è del febbraio ’93: a Scalfaro gli anonimi chiedono la testa del “dittatore Amato e dei suoi squadristi”, lamentandosi del carcere duro. Tre mesi dopo vengo cacciato.
Cosa accadde in quei tre mesi?
Un’altra cosa importante, documentata agli atti. Pochi giorni dopo il ricevimento di quella missiva Scalfaro convoca al Quirinale il capo dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni, persona degnissima, già incaricato da Paolo VI di mediare con le Br sulla liberazione di Moro. A lui fu detto di andare dal ministro di Giustizia Conso per aiutarlo a trovare il mio successore. E così fu. Strana procedura, direi.
Ne deduco che a suo avviso la trattativa Stato-mafia durante gli anni della stragi ci fu. E andò a buon fine sul 41bis.
Guardi, se e noi intendiamo coma trattativa un tavolo al quale si sono seduti da una parte i mafiosi e dall’altro settori deviati dello Stato, non ce n’è prova. Quello che certamente è successo è qualcosa che con un procedimento diverso ha portato allo stesso risultato: due parti contrapposte in un conflitto sanno l’altro cosa vuole, non c’è bisogno che si parlino o di un “papello” scritto, ognuno fa quello che l’altro vuole. Si chiama tacita intesa. Come ha detto Conso, no? “Ho fatto tutto da solo, senza trattativa, perché lo ritenevo giusto…”.
Questo spiegherebbe anche molti degli interrogativi sulla morte di Paolo Borsellino. Perché lei non ne parla mai?
Perché a mio avviso quella fu una vendetta della mafia contro un magistrato che aveva inferto colpi importantissimi a Cosa Nostra. La mia cacciata fu invece l’effetto di un mutamento della strategia stragista mafiosa, che aveva l’obiettivo di fare pressioni per la soppressione del carcere duro, che la mafia temeva particolarmente anche perché favoriva il pentitismo. Quel carcere duro che cominciò a produrre i suoi effetti subito dopo la morte di Borsellino, creando gravi problemi alla mafia.