Silvia Giralucci: «Morire per un’idea, ho cercato di capire perché»
Un lungo applauso, intriso di commozione e rispetto, ha accompagnato i titoli di coda di “Sfiorando il muro”, il film documentario di Silvia Giralucci presentato ieri fuori concorso in proiezione speciale alla Mostra del Cinema di Venezia. Un tributo a un lavoro nato sulle ceneri di un dolore difficile da metabolizzare: l’uccisione di un padre caduto nella guerra degli anni di piombo, una ferita già raccontata dalla regista nel libro edito da Mondadori “Cercando mio padre, vittima delle Br nella memoria divisa degli anni Settanta”. Silvia, all’epoca della morte del genitore, aveva tre anni: sarebbe passato parecchio tempo prima che capisse veramente cosa era avvenuto e perché. Ed è su quel perché che la sua vicenda privata s’intreccia con quella del Paese. È qui che le sue domande, quel desiderio di fare i conti con il passato, ricalcano interrogativi e scheletri nell’armadio di tutta una nazione. Sullo schermo, allora, tra filmini di famiglia e materiali d’archivio, super8 in technicolor e spezzoni di manifestazioni all’Università di Padova, la ricostruzione di una delle pagine più drammatiche della nostra storia recente: a riproporla, con un equilibrio narrativo difficile da gestire, eppure garantito, la figlia di Graziano Giralucci – con Giuseppe Mazzola tra la prime vittime delle Brigate Rosse – ucciso a 29 anni, nel 1974, durante un assalto nella sede del Msi di Padova. Diretto con Luca Ricciardi, prodotto da DocLab di Marco Visalberghi, senza fondi pubblici se non della Regione Veneto, “Sfiorando il muro” sarà distribuito da Microcinema, e dovrebbe uscire a dicembre. «A Padova il 7 aprile – data del maxi arresto nel ’79 di giornalisti, professori, leader e militanti del movimento e di Potere Operaio, tra loro Tony Negri, Oreste Scalzone, Franco Piperno, accusati di associazione sovversiva e insurrezione armata contro lo Stato – è ancora oggi per la città una data tabù, una ferita mai rimarginata». Una ferita ancora aperta anche la sua di figlia che, ci dice, si alimenta sempre di nuove acquisizioni e scoperte. «Non è un caso se una scena del mio film è girata proprio al “Secolo d’Italia”. Nel percorso di ricerca di dati e materiale storico sono venuta nella vostra redazione dove, visionando una foto, ho appreso una cosa che non sapevo: ero al funerale di mio padre, e quell’immagine mi ritrae in prima fila in braccio a mia zia».
Cosa si augura dalla diffusione di "Sfiorando il muro"?
Di capire e far capire. Il mio è un film dedicato a chi non c’era negli anni ’70 e a chi pur essendoci, non è riuscito in questi trent’anni, a rielaborarli.
In una delle sue recenti interviste ha dichiarato che l’agguato in cui fu ucciso suo padre ha segnato l’inizio di un vuoto affettivo, materiale e sociale che per anni l’ha tenuta lontana dalla politica e dall’impegno civile. Con il libro, prima, e il film documentario, oggi, sta cominciando a rompere il silenzio?
È un mio percorso personale, perché ho necessità di riappropriarmi dell’origine della mia ferita, di cui continuerò sempre a portare addosso i segni.
Il suo film mescola pubblico e privato e ci ha appena detto che per lei rappresenta uno strumento con cui indagare sul suo dolore. Ma quanto manca al nostro Paese per finire di fare i conti con quella pagina insanguinata della nostra storia?
Abbiamo appena cominciato a farli, e spero che il mio film rappresenti un ulteriore tassello nella ricostruzione di quegli anni. Il libro di Mario Calabresi, “Spingendo la notte più in là”, ha fatto vedere le cose da un’altra prospettiva, portando a riflettere sull’individualità del commissario Calabresi. Vorrei accadesse lo stesso per mio padre, considerato sempre un simbolo e mai un uomo.
Secondo lei dunque la prospettiva sul terrorismo è cambiata: il suo film, prima ancora il suo libro, e quello di Mario Calabresi come quello di Benedetta Tobagi (“Come mi batte forte il cuore"), concentrando l’attenzione su quei caduti, considerati uomini, padri di famiglia e mariti prima ancora che emblemi di una guerra politica, e poi sui figli di questi uomini, vittime a loro volta, si è spostato l’asse delle rilettura storica e la prospettiva del dibattito politico di quel periodo?
Penso che noi figli abbiamo la necessità personale di andare a cercare le ragioni della nostra ferita, e non possiamo che cercarle nella storia; peraltro, noi abbiamo un distacco che chi ha vissuto in prima linea quegli anni, più difficilmente riesce ad avere. Questa è una cosa che sento molto nel confronto con i figli delle altre vittime: tra noi ex bambini, orfani per mano di terroristi, c’è un sentimento particolare che è molto difficile da verbalizzare e che nasce dall’essere stati feriti pur non essendo stati parte di quelle tensioni.
In questa sua ricerca personale e storica lei ha tentato in più occasioni di incontrare gli avversari politici di suo padre, a partire da Tony Negri, che le ha sempre rifiutato il dialogo…
Diciamo che Tony Negri è il simbolo di tutti gli ex Autonomi che mi hanno detto di no; avrei parlato volentieri anche con qualcun altro. I silenzi sono stati tanti, e motivati dalle più svariate ragioni: il confronto con i figli, che dai padri – ex Autonomi – non sanno esattamente quel che è successo in quegli anni; le vite che sono cambiate, per cui persone che ieri si erano illuse di poter capitanare una rivoluzione, oggi si ritrovano a fare i direttori marketing, piuttosto che a lavorare in banca… Pensi che un professore universitario molto onesto mi ha detto: «Neppure i più progressisti tra le persone che frequento oggi potrebbero accettare alcuni lati di quella storia»; e poi c’è Tony Negri che – sdegnosamente – mi ha detto che di quel periodo «non parla con me».
E come legge questo rifiuto?
Penso che lui, rispetto a quegli anni, abbia ancora una maschera che non ha nessuna intenzione di togliersi: neppure oggi.
Un’altra cosa: so che lei ha avuto un problema di traduzione per i sottotitoli con il termine “missino”, che rischiava una riformulazione impropria…
Il mio documentario gioca molto sulla contrapposizione “camerati” e “compagni”, perché parto dalla ripresa di una scritta sul muro che recita «Fuori i compagni del 7 aprile»; e poi c’è la scena del presente, che è per mio padre, in cui campeggia la scritta «camerati». Il problema è stato che in inglese queste due parole hanno la stessa traduzione. So che alla fine hanno usato due termini diversi, ma non saprei dire quali… Il fatto è che non è facile tradurre per un pubblico straniero la parola “missino”. Ma non solo fuori del nostro Paese. Oggi – e ne ho fatto esperienza diretta – parlare con un quindicenne di casa nostra, che non sia attivamente impegnato in politica, denuncia come e quanto questi ragazzi non sappiano cosa sia il Msi, il Pci, la Dc: per loro sono sigle assolutamente vuote.
Quindi se le chiedessi cosa si riverbera di quel momento storico nello scenario politico-sociale di oggi…
Le risponderei ben poco: la violenza si è portata via tutto, compresi i grandi ideali, che mancano.
E invece, del ricordo di suo padre cosa è più che mai vivo oggi?
Mio papà incarna senza ombra di dubbio lo spirito di quell’epoca che io ho avuto bisogno di conoscere e comprendere; è stato un ragazzo impegnato in politica, che ha dato la vita per le sue idee. Io ho cercato di capire perché.