Mario Sechi: la classe dirigente? Tutta da cambiare
Alla manifestazione del “Movimento di Francoforte” di sabato scorso c’era anche Mario Sechi, direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, nel ruolo di moderatore del convegno sulla crisi cui hanno partecipato le centinaia di giovani presenti nella città sede della Banca centrale europea. E ne ha tratto la convinzione che «una politica diversa è possibile», come ha scritto nel forte editoriale di domenica sul giornale da lui diretto. Un ottimista in un mondo di catastrofisti mediatici. Lo abbiamo chiamato per sapere da lui come mai vede il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto come molti altri suoi colleghi.
Direttore, come mai questo entusiasmo dopo la manifestazione di Francoforte?
Perché si tratta certamente un segnale positivo, pulito. Ma devo fare comunque una premessa doverosa: la crisi c’è, è durissima, siamo da qualche anno in recessione e lo saremo anche l’anno prossimo. Per produzione industriale l’Italia è l’ultima in Europa, e per oppressione fiscale siamo i primi nel mondo…
E allora da dove viene questo ottimismo?
È molto semplice: noi italiani ce l’abbiamo sempre fatta. Perché accanto al bicchiere mezzo vuoto appena descritto c’è quello mezzo pieno: ossia gli oltre 1600 miliardi di Pil, il fatto che siamo il secondo Paese manifatturiero nella Ue dopo la Germania, la mantenuta attitudine al risparmio delle famiglie, l’80 per cento delle quali possiede una casa, e la presenza di una solida struttura di piccole e medie imprese, insomma una nazione con tutti i fondamentali per riprendersi alla grande. Se si accantona per un attimo il debito pubblico (duemila miliardi), abbiamo chanches migliori di quelle di molti Paesi. E poi c’è la storia.
La storia?
Certo, perché anche quella recente ci insegna sempre la stessa cosa: che dopo un grande choc viene sempre una grande ripresa. Fu così dopo il Risorgimento, con l’Unità, grazie al disegno politico di Cavour e al coraggio di Garibaldi, fu così dopo il fascismo, che modernizzò sì il Paese ma che finì in una immane tragedia, dalla quale ci risollevammo e demmo vita al miracolo economico. E guardi che non fu facile: nei primi anni ‘50 vivevamo in uno stato di povertà autentica, di miseria, in cui 870mila famiglie abitavano in tuguri, non consumavano carne, zucchero e vino, circa mezzo milione di famiglie non possedeva scarpe.
Su questo argomento tra l’altro è in uscita un suo libro, “Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta”, per la Mondadori, in cui descrive queste dinamiche…
Sì, uscirà a fine ottobre, per dire che ogni volta ne siamo usciti bene, malgrado la tragedia che periodicamente ci aveva colpito. Negli anni Settanta ci fu un altro choc, l’utopia armata, ma alla fine la sconfiggemmo anche se con costi esistenziali enormi. Dopo però i governi che seguirono, definiti da qualcuno quelli del «consociativismo», non riuscirono a prendere il treno dell’innovazione e delle riforme, col risultato che venne Tangentopoli, altro choc, al quale provammo a reagire con prodotti dell’antipolitica, ma senza tentare o azzeccare un vero rilancio. Rispondemmo solo con populismo e tecnocrazia. Non ha funzionato.
Ma come se ne esce stavolta? Quella che stiamo seguendo è la ricetta giusta?
Temo di no. In realtà negli ultimi decenni non abbiamo mai veramente aggredito il debito pubblico. Ci furono anche delle dismissioni del patrimonio pubblico, ma non hanno lasciato traccia. Né i governi politici né i governi tecnici – Amato e Monti – hanno mai davvero affrontato il vero problema, che è quello di rinnovare totalmente la classe dirigente di questo Paese. E attenzione, quando si parla di classe dirigente non si intende solo quella dei partiti, ma quella imprenditoriale e quella dei grand commis dello Stato e dei sindacati. Perché negli ultimi decenni certo non vivevano tutti su Marte… È facile attaccare ora i partiti, ma non sono gli unici responsabili.
E come si rinnova una classe dirigente, mettiamo proprio quella dei partiti?
Uscendo da quel fenomeno che io chiamo il «guelfoghibellinismo» che ha sempre attanagliato l’Italia. Mettendo da parte il peggiorismo, riconquistando l’autostima, emarginando quelli per i quali è più facile distruggere che costruire. Gli italiani in primo luogo, e poi anche i Paesi europei, devono decidere una volta per tutte se tenersi questa classe dirigente o se prendere il treno delle riforme, anche se per fare questo ci vuole un governo che le voglia – e sappia – fare. Ma contestualmente i partiti dovranno selezionare rigorosamente i loro quadri, attraverso la competizione e la democrazia, quella vera. Perché l’Italia è un membro importante in Europa e proprio da qui deve nascere qualcosa di nuovo, come dicevano i giovani a Francoforte.
Cosa ci aspetta nell’immediato futuro?
Alle prossime elezioni politiche i due partiti maggiori, Pdl e Pd, dimagriranno notevolmente nei loro consensi, ci sarà poi una miriade di partiti e partitini all’ombra di un grande partito di protesta non politico, quello di Grillo, che non si sa cosa potrà o vorrà fare. Insomma, saremmo davanti certamente a un parlamento balcanizzato e se adesso dovessero sbagliare la legge elettorale – come temo che accadrà – anche ingovernabile.
Prospettive non molto rosee…
È questo lo choc che dovremo nuovamente superare. L’ennesima sfida.