Un tè alla menta a casa di Evola. Così Ugo Franzolin ricordava il filosofo
Pubblichiamo di seguito un articolo di Ugo Franzolin in cui lo scrittore rievoca la collaborazione tra Julius Evola (il filosofo scomparso 43 anni fa, l’11 giugno del 1974) e il Secolo d’Italia. Il testo di Franzolin è tratto dal libro “Gli articoli di Evola sul Secolo d’Italia. 1953-1964”, edito dalla Fondazione Evola e curato da Gianfranco Lami.
Ugo Franzolin
Con il congresso di Pescara nel Movimento Sociale Italiano del giugno 1965 vi furono i cambiamenti al vertice. Vinse il congresso Arturo Michelini, uno dei fondatori di quel partito, nato alla fine del 1946. In precedenza Michelini aveva comprato il quotidiano fiancheggiatore del movimento, Il Secolo d’Italia, proprietà del senatore Franz Turchi, suo fondatore.
Ne era il direttore dal 1964, ma fu chiamato a dirigerlo politicamente Nino Tripodi, un altro dei primissimi del Movimento Sociale, un intellettuale che si era segnalato tra i giovani più promettenti negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, avvocato e – negli anni Cinquanta – parlamentare. Chi però confenzionava materialmente il giornale e aveva quindi stretto rapporto con la redazione, era Cesare Pozzo, giornalista professionista, qualche anno dopo, senatore.
Un giorno Michelini mi chiama. Ero stato assunto al Secolo nel momento in cui il Meridiano d’Italia dove lavoravo aveva sospeso le pubblicazioni per trasferirsi da Milano a Roma. Mi avevano affidato la terza pagina che curai fino al 1967 quando passai al quotidiano La Luna. Una pagina tradizionale, in più, una o due volte la settimana, una pagina monografica, letteratura, pittura, musica e storia.
“Ho qui un articolo di Evola”, mi dice Michelini, “scriverà per noi”. “Acquisto eccellente“, gli dico io, “un pensatore affascinante”, butto lì. Guardo Michelini, che mi guarda di sottecchi. “Sì, certo”, commenta, “ma io leggo i gialli, quando vado a letto la sera, prima di dormire e ho la testa piena delle cose che domattina dovrò fare, come, ad esempio, mandare i soldi alle federazioni, soldi che non ho e devo rifilare qualche balla per tirare avanti”.
Di Julius Evola, a dire la verità, non è che ne sapessi molto. Anzi, diffidavo un po’, come tutti quelli per i quali il fascismo, come nel mio caso, è stato prima un fatto di provincia – le realizzazioni – poi un fatto di guerra, “il sangue contro l’oro”, un semplificare che farebbe trasalire un intellettuale.
Dopo quattro o cinque articoli pubblicati come elzeviro, Evola mi invitò a casa sua per un tè. Abitava a Corso Vittorio.
Molto cordiale. Aveva un grave disturbo alla spina dorsale. Stava sempre seduto in poltrona. Gli feci visita quattro o cinque volte. Non so se gli interessassi. Forse sì, ma perché non avevo quasi niente delle sue letture, perché la mia testa, dopo cinque anni di guerra sui fronti e un anno di galera a San Vittore, era piena di immagini più che di speculazioni sottili.
Il tè era squisito. Glielo dissi. “Aggiungo foglioline fresche di mentuccia”, commentò, “e qualche fiore essiccato di ibisco, addolcendolo, come vede, con zucchero di canna, un dono che amici mi mandano dalla Germania”.
Mentre si sorseggiava il tè, Evola parlava, parlava. Aveva una voce bassa, musicale, due occhi che indagavano. Mi sembrò di capire che avesse studi esoterici, un’altra novità per me, sempre tenutomi lontano da esplorazioni misteriose, più amante dell’uomo che fa, spacca tutto, magari, ma che non sta lì a interrogare l’arcano, o vola in spazi siderali.
Un giorno, mentre Evola mi parlava della Parigi delle avanguardie nella quale viveva, qualcuno citofonò. Una signora che si occupava delle cose domestiche, venne a dire che un ragazzo chiedeva di salutare. Disse il nome, Adriano.
Entrò un giovane, poco più che ragazzo. Aveva una sua composta eleganza, un tratto signorile. Alla presentazione seppi che era il figlio di Pino Romualdi, che mi onorava della sua amicizia, conosciuto a Milano, vicesegretario del Partito Fascista Repubbicano.
Conversammo un po’, ma dopo una decina di minuti dovetti salutare e andarmene perché mi aspettava il solito lavoro al giornale.
Prima di congedarmi invitai Adriano a collaborare alla mia pagina. Volevo ospitare dei giovani, voci nuove.
Così fu, infatti. Diventammo amici. Io do del tu volentieri ai ragazzi, mi è più facile parlargli, e se loro fanno altrettanto, la cosa mi fa piacere. Eppure con Adriano ci fu sempre di mezzo il lei, anche se il rapporto era cordiale, affettuoso da parte mia e, oso credere, anche da parte sua.
Era preparatissimo, riflessivo, sempre disposto a riesaminare un concetto, ma con dei punti fermi, che erano ormai miei.
Gli chiesi di Evola. “Sa”, gli dissi introducendo il discorso, “mi sembra un mago”. Adriano si mise a ridere. “Un po’ lo è”, rispose, “nel senso che sa sublimare intuizioni rare, al limite della visione onirica, il percorso misterioso della vita”.
Ricordo con rimpianto quel tempo. Evola è morto, Adriano, ancora giovanissimo, ci ha lasciati in situazioni tragiche, sul ciglio di una strada, dopo un incidente.
Perché rimpianto? Ma perché allora, anche se da posizioni intellettuali diverse, per un proprio carattere, una propria storia personale era bello vivere, essere in attesa di un evento. Utopisti? Forse, ma la nostra utopia non era la carta di credito, o il telefonino, o la curva sud. Eravamo in attesa, ecco, ripeto. In attesa? Sì, certo, che i sentimenti tornassero.
Un giorno Evola mi disse: “Sa, la strada è lunga, interminabile”…