
I temi della destra: se l’inchiostro dei vinti è ancora così attuale…
Politica - di Annalisa - 27 Novembre 2012 - AGGIORNATO 27 Novembre 2012 alle 15:13
Tra i tanti spunti che sarebbe il caso di raccogliere, analizzare e meditare in questa congiuntura in cui in tanti si esercitano a profetizzare sugli oscuri destini della destra, consigliamo di dare un’occhiata all’approfondito studio di Elisabetta Cassina Wolff sulla stampa neofascista dell’immediato dopoguerra fino al 1953. Già nel titolo, L’inchiostro dei vinti (Mursia, pp. 386, € 18), l’autrice richiama il noto bestseller Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa. Ma mentre quest’ultimo testo accendeva pietosamente i riflettori sugli eccessi e sugli eccidi della guerra partigiana collocandosi sulla scia di un doveroso revisionismo storico che restituiva fatti e volti a una memoria oscurata, il libro di cui ci occupiamo oggi, pur definendo i contorni di un mondo ormai lontano dal presente, getta sul tavolo del dibattito politico temi e argomenti ancora attualissimi, nodi irrisolti, critiche imprescindibili all’attuale assetto partitocratico.
Intanto un primo elemento balza agli occhi del lettore: dinnanzi all’attuale mortificante afasia del mondo culturale della destra, colpisce la vivacità intellettuale dei reduci, dei sopravvissuti, degli eredi del fascismo che seppero animare una pubblicistica varia e vitale, poco studiata ma non per questo meno importante nel definire i canoni ideologici di quello che sarebbe diventato il Movimento sociale e di quelli che sarebbero stati i successivi filoni culturali della destra.
Elisabetta Cassina Wolff ha esaminato una settantina di giornali e riviste dell’area che si richiamava esplicitamente al fascismo, tra i quali spiccano Lotta politica e Rivolta Ideale, ma anche Rosso e Nero, Fracassa, Asso di bastoni, Meridiano d’Italia, Rataplan, L’Intransigente, Il Merlo giallo, Nazionalismo Sociale, Architrave. Chi erano questi neofascisti? Quelli che si sentivano esuli in patria ma che non intendevano cedere al disarmo ideologico: «In tre cose credemmo– scriveva Alberto Giovannini – nell’Italia; nella necessità di un profondo movimento rivoluzionario destinato a rinnovare gli istituti, le classi dirigenti, la coscienza del popolo; nella Repubblica che, di tale rinnovamento, deve essere l’essenziale strumento e la suprema depositaria». Di qui la loro collocazione nella cosiddetta “sinistra fascista” (cui ha dedicato un approfondito studio Giuseppe Parlato) affiancata tuttavia da una corrente tradizionalista che sempre nel primo dopoguerra guardava alle tesi e alle teorie del filosofo Julius Evola, il quale pubblicò il suo primo articolo del dopoguerra, il 20 giugno 1949, su La Sfida di Enzo Erra, con lo pseduonimo Arthos.
Al di là di queste classificazioni, tuttavia, comune a tutti era la necessità di definire i contorni di un’attività politica che – come scrivevano sui fogli che andavano diffondendo – non poteva essere confinata nel piatto nostalgismo. Affermazioni importanti, se si considera che si tratta di articoli scritti prima del 1950. Il direttore di Rivolta Ideale Giovanni Tonelli chiarì che la nostalgia poteva essere ammessa non certo per il passato regime ma per alcune aspirazioni presenti nella dottrina fascista: la grandezza della patria, la collaborazione tra le classi per una maggiore giustizia sociale, l’unità europea, la lotta contro la plutocrazia e il bolscevismo. Anche la stessa definizione di neofascismo veniva messa in discussione: «Non siamo fascisti – si legge nel 1947 su Fracassa – non siamo antifascisti, siamo italiani. Non siamo fascisti, innanzitutto, perché non siamo adoratori di astratte formule politiche, di vuoti schemi mentali. Non siamo fascisti allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui non siamo e non pensiamo di poter essere oggi ghibellini o vandeani». Tuttavia «rivendichiamo il diritto di tessere ogni giorno l’apologia della Patria». Ma nella ricerca di una identità compatibile con la condizione di vinti, questi intellettuali anadrono ancora oltre, asserendo che proprio perché avevano creduto fermamente e senza compromessi nel fascismo erano stati colpiti più duramente dagli errori oggettivi del regime e dunque non desideravano alcuna restaurazione del passato: «Il passato è passato, e si è fedeli alla tradizione di una realtà politico-sociale originale come la nostra soltando rinnovando e creando del nuovo, non imitando modelli prestabiliti o rimasticando velleità restauratorie».
Al gruppo di scrittori e giornalisti cui è dedicato L’inchiostro dei vinti si deve anche la definizione di fascismo come terza via tra destra conservatrice e sinistra insurrezionale. In particolare si deve al filosofo Edmondo Cione (che fondò negli anni Cinquanta la rivista Nazionalismo Sociale insieme con Francesco Palamenghi-Crispi) la separazione tra il fascismo storico con i suoi errori e le sue contraddizioni e alcuni principi sempre validi che dovevano continuare a essere punto di riferimento dell’azione politica. Secondo Cione il fascismo, che nell’interpretazione marxista si riduceva ad assetto politico fondato sulla reazione della borghesia minacciata dall’avanzata del proletariato, era stato un fenomeno rivoluzionario nell’ambito della filosofia sociale riuscendo a inglobare in una nuova dottrina liberalismo e socialcomunismo. Se alcuni spingevano sull’aspetto delle politiche socio-economiche del passato regime altri, come Massimo Rocca, insistevano invece sulla necessità di promuovere una vasta riforma costituzionale per creare un ponte con le forze vive della nazione. Chi (la sinistra) guardava alla socializzazione e chi (la destra) guardava all’idea di Stato.
Né mancava l’anelito a superare gli aspetti deteriori del fascismo regime, incentrando le critiche soprattutto sulla mediocrità dei gerarchi e di quella parte della classe dirigente fascista che aveva aderito a quelle idee solo formalmente, senza convinzione e per interessi particolaristici e di casta. Da queste osservazioni l’analisi si allargava fino a mettere sotto accusa il carattere opportunista degli italiani, incapaci di vere rivoluzioni, insofferenti verso i poteri costituiti e tendenzialmente individualisti. Scriveva Giorgio Pini sul Meridiano d’Italia: «Si odia e contemporaneamente si cerca il gerarca; scarseggiano le virtù, il vigore e l’educazione necessari per la consistenza di un vero sistema democratico, manca nelle categorie il senso della partecipazione diretta allo Stato e quindi la volontà di sostenerlo con una adesione leale e senza riserve».
Notevoli, infine, i numerosi articoli dedicati alla partitocrazia, ai rischi del regionalismo e alla necessità di superare la contrapposizione fascismo-antifascismo tra i quali spiccano le riflessioni di Carlo Costamagna sulla Costituzione italiana che, a suo dire, aveva confiscato l’autonomia del Parlamento per consegnarlo ai capricci dei partiti. Un concentrato di aspirazioni e ambizioni che avrebbero dovuto costituire l’agenda politica di una destra all’altezza delle sfide contemporanee e che si è perso nei polverosi archivi dove solo qualche storico di buona volontà ormai ha voglia di frugare mentre gli eredi legittimi di quell’«inchiostro» così nobile e così denso di suggerimenti hanno ceduto da tempo alle lusinghe e al miraggio del 51%.
di Annalisa