Manlio Contento: «La vicenda del capoclan scarcerato prova che sulla Giustizia avevamo ragione»

23 Gen 2013 19:20 - di Antonio Pannullo

Un’operazione della squadra mobile di Reggio Calabria e dei commissariati di Bovalino e Siderno ha portato a conque fermi emessi dalla Dda nei confronti di presunti affiliati alla cosca dei Belcastro-Romeo di Sant’Ilario. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di estorsione, riciclaggio ed usura, aggravati dall’aver agevolato la ‘ndrangheta. Secondo l’accusa avrebbero esercitato pressanti richieste ad un imprenditore affinché pagasse il “pizzo”. E questa è senza dubbio una bella notizia, che nell’Italia della crisi, della malapolitica, della corruzione, ci sia ancora qualcosa che funziona. Ma poi si scopre che c’è anche un ergastolano scarcerato nel dicembre 2010 per decorrenza dei termini di custodia cautelare, perché le motivazioni del processo d’appello erano state depositate quattro anni e mezzo dopo la sentenza, tra quelle cinque persone sottoposte a fermo dalla polizia. E non è uno qualunque, o una mezza figura. Si tratta di Giuseppe Belcastro, di 57 anni, ritenuto il boss dell’omonima cosca, operante a Sant’Ilario sullo Ionio. Questa la cronaca dell’allucinante vicenda: Belcastro era stato condannato all’ergastolo nel marzo 2006 dalla corte d’assise d’appello di Reggio Calabria a conclusione del processo sulla faida di Sant’Ilario, durata oltre 17 anni, tra le famiglie dei D’Agostino da una parte e dei Belcastro-Romeo dall’altra. Ma le motivazioni di quella sentenza furono depositate solo nel dicembre 2010, provocando la scarcerazione di Belcastro. Dopo essere uscito dal carcere, Belcastro fu avviato alla pena alternativa nella casa di lavoro di Sulmona. Quindi il tribunale di sorveglianza dell’Aquila dispose nei suoi confronti la trasformazione della misura in libertà vigilata per due anni e Belcastro tornò a Sant’Ilario. La scarcerazione di Belcastro provocò scalpore e polemiche otre all’intervento dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano e del procuratore generale presso la Cassazione. Ma così è.  In quest’ultima vicenda, secondo quanto emerso dalle indagini, un imprenditore è stato costretto ad assumere come braccianti agricoli alcuni affiliati alla cosca oltre a dover pagare direttamente somme di denaro. Gli assegni usati per pagare gli stipendi, nonostante gli assunti non si recassero al lavoro, venivano portati all’incasso da uno degli indagati, che poi girava il denaro allo stesso Belcastro. Come ha sempre affermati il Pdl, la riforma della giustizia è urgente, e sul “processo breve” il governo si scontrò con i poteri forti che temevano che fosse colpita l’autonomia della magistratura. Abbiamo chiesto un parere su questa vicenda gravissima al deputato del Pdl Manlio Contento, avvocato penalista e componente della commissione Giustizia della Camera.

Come possono ancora accadere cose di questo genere?

È solo l’ennesimo episodio che vede ritornare in libertà un condannato per reati gravissimi grazie a un ritardo nel deposito della sentenza… non sbagliavamo quando proponemmo un accorciamento dei tempi giudiziari con il cosiddetto “processo breve”…

Cosa si può fare, come ci si può difendere da queste enormità?

Il minimo che il ministro della Giustizia possa fare adesso è disporre un’ispezione presso l’ufficio giudiziario coinvolto, allo scopo di verificare se esistano i presupposti per l’avvio di un procedimento disciplinare.

Però quando in questa nazione si tenta di fare una riforma della giustizia, tutti gridano all’attentato dell’autonomia dei magistrati…

Diciamo solo che è quantomeno abbastanza singolare che quando i procedimenti penali riguardano il presidente Berlusconi tutti gli adempimenti processuali vengono fatti a tempi di record, e quando invece sono relativi a un “semplice” condannato all’ergastolo gli stessi tempi si allunghino…

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