La Melandri stoppa il film anti-Cav. E si becca l’accusa di agire come il Minculpop…
Tiene duro Giovanna Melandri, a costo di essere accusata di intelligenza con il nemico. «Non cambio idea», twitta l’ex ministro presidente del Maxxi, «e poi posticipare non è bandire!». La prima del documentario Girlfriend in a Coma (La fidanzata in coma) prevista al Museo nazionale delle Arti per il 13 dicembre non si farà. Almeno per ora. Il documentario sulla buona e sulla cattiva Italia (con una particolare attenzione al Bunga Bunga e alle nefandezze berlusconiane), firmato dall’ex direttore dell’Economist Bill Emmott e da Annalisa Piras, dovrà aspettare il dopo voto. «Sono convinta che sia mio dovere tenere fuori la campagna elettorale dal Maxxi, che è un museo pubblico, finanziato dai contribuenti». Emmott non l’ha presa bene e ha minacciato appelli al Foreign Office mentre il ministero dei Beni culturali nega il niet. «C’è stata una reciproca consultazione – spiega invece la Melandri – e ho preso la decisione confermando una prassi consolidata secondo cui agli Uffizi così come alla Galleria Borghese o al Maxxi non è opportuno ospitare iniziative che hanno un evidente profilo politico in campagna elettorale». Il Louvre o il Beaubourg o la Tate lo farebbero? Ma nell’Italia dei campanili tutto fa polemica. Il direttore de La Stampa, Mario Calabresi, non si fa sfuggire la ghiotta occasione e annuncia l’intenzione di organizzare la prima italiana nella sede del giornale torinese. E Gianni Riotta si straccia le vesti, «non si può vedere un film, ma dove siamo finiti?». «Faresti bene Mario. Noi aspettiamo Bill Emmott dopo il 26. Il Maxxi a differenza de la Stampa è un’istituzione pubblica», insiste l’ex ministro. Pochi i dubbi sulla pellicola che «mira – parole di Emmott – a introdurre gli italiani al lato oscuro del declino politico, economico e sociale del loro paese, prodotto di un collasso morale senza eguali in Occidente». Dello sguardo Oltremanica alla «corruzione istituzionalizzata dell’Italia, al sistema politico cleptocratico e all’influenza perniciosa della Chiesa» non si sente in queste ore un gran bisogno. La Piras si dichiara addirittura sotto choc per «una tale violazione della libertà di espressione da parte di una istituzione che dovrebbe proteggerla e ci porta dritti ai tempi del Minculpop. Se il film non verrà immediatamente riprogrammato possiamo veramente dire che l’Italia non è più un paese democratico». Ma dov’è la censura? Il rinvio è solo un fatto di «banale rigore istituzionale». Il contenuto del film è un «un misto di Michale Moore, Adam Smith e Bunga Bunga, con un pizzico di Dante», il tutto corredato da interviste con Mario Monti, Umberto Eco, Nanni Moretti e Sergio Marchionne. Non proprio testimoni imparziali. Convince poco la tesi di Libero secondo cui l’esponente democratica avrebbe messo il bavaglio al film perché Bersani & company ne escono male e lo stop sarebbe un affare tutto interno alla sinistra. Vista la firma (l’ex direttore dell’Economist che nel 2001 dedicò la copertina al Cavaliere con il titolo “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy”, “Perché Silvio Berlusconi è inadeguato a guidare l’Italia”), l’argomento regge poco. Forse vale la pena ammettere che stavolta Giovanna, incappata nella prima polemica internazionale, ne ha fatta una buona. Perché non dirlo?