Addio a Damiano Damiani, il regista che denunciò vizi e malcostume del Paese
Il cinema italiano perde un altro dei suoi padri nobili, Damiano Damiani, regista – ma anche scrittore e attore – friulano nato a Pasiano di Pordenone nel 1922, e morto ieri sera a Roma nella sua casa, per insufficienza respiratoria. Autore novantunenne, da molto tempo si era ritirato dal set, per una vita vissuto come una palestra artistica in cui esercitare costantemente riflessione sociale e passione etica raccontando, nel segno dell’impegno e della denuncia, soprattutto in pieni anni ’60 e ’70, il cammino di un Paese viziato dalle deviazioni di un sistema. Un lungo apologo di costume, il suo, proiettato in controluce sul grande schermo seguendo le coordinate di una lettura morale e di una passione civile, legate al mondo che descriveva. Una filmografia, la sua, fiorita all’epoca dei codici neorealisti, poi rielaborati nell’ottica di un cinema popolare mirato a puntare la macchina da presa su meccanismi e storture manovrati da eminenze grigie all’ombra della cupola di potere. Un regista, Damiani, capace di declinare la sua passione per la realtà quotidiana a partire da ciò che lo circondava, salvo poi caricare i personaggi, protagonisti e vittime dei suoi film, di forte valore simbolico. Un cinema curioso, il suo, capace di incidere profondamente nelle coscienze con l’arma della polemica e di graffiare con l’ironia. Una produzione, quella di una vita, che dalla cronaca socio-politica alla letteratura, da Il sicario (noir che denuncia senza filtri l’eterna lotta tra ideali e arrivismo individuale) a L’isola di Arturo (dall’omonimo romanzo di Elsa Morante), si è declinata con i più diversi linguaggi cinematografici. Una carriera, quella di Damiani, inaugurata nel 1960 con Il rossetto, (ispirato alla storia vera di una ragazza che assiste all’omicidio di una donna e si innamora dell’assassino), e proseguita con incursioni colte persino nello “spaghetti western”, coniugato grazie a Quién Sabe? con i dettami del cinema dell’impegno politico, in cui sullo sfondo dell’ambientazione messicana, il mercenario yankee (Lou Castel) e il bandito armato di coscienza intellettuale (Klaus Kinski) aprono nuovi scenari al filone. Ma sarà con Il giorno della civetta del 1968, dal romanzo di Leonardo Sciascia, con Claudia Cardinale e Franco Nero, che Damiani realizzerà a pieno obiettivi ed esiti del suo cinema: film intenso e calibrato sulle magistrali interpretazioni dei suoi protagonisti, mette in scena senza censure la connivenza tra politica e mafia osteggiata, nell’omertà imperante, dall’onestà di un determinato capitano dei carabinieri deciso ad affermare la priorità dei codici della legge sulla pratica di corruzione e violenza. Un successo, quello del Giorno della civetta, tradotto negli anni Ottanta anche sul piccolo schermo grazie alla prima e ormai cult serie Rai della Piovra con Michele Placido. Quasi un testamento cinematografico lasciato da un regista considerato a lungo a metà strada tra autorialità e alto artigianato, forse per essersi smarcato subito dai dogmi postneorealisti a cui d’ufficio avrebbe dovuto appartenere. Un maestro che ha provocato sempre qualche difficoltà ai critici che avrebbero voluto incasellarlo in una precisa categoria ideologica. In fondo, allora, Damiani fu soprattutto l’uomo e il cineasta definito da Pasolini: «un amaro moralista assetato di vecchia purezza », che è stato impossibile ingessare in una delle correnti di pensiero, come in una delle scuole culturali dominanti.