Per avere bravi “civil servants” i soli tagli non possono bastare

27 Mar 2013 11:36 - di Silvano Moffa

La pubblica amministrazione nel nostro Paese non gode certo di una buona immagine.  Il giudizio che la circonda è pessimo. Assenteismo, inefficienza, spreco sono entrati nel vocabolario comune di chi vuole sinteticamente descriverne lo stato. Né occorre scomodare il Maestro e Margherita di Bulgakov o il Processo di Kafka per ritracciare i segni di una burocrazia ottusa, spesso ostile, persecutoria, il cui tasso di autoreferenzialità cresce in proporzione all’intrecciarsi di una legislazione inestricabile e confusa. La norma, nella sua spessa articolazione, diventa tartufesca copertura di un potere sottile e ambiguo da esercitare nei confronti di un indifeso cittadino. Questo, ovviamente, è il volto di una burocrazia degenerata. Tutto il contrario di quel che la burocrazia dovrebbe essere in un corretto e lineare sistema democratico. Dove l’apparato amministrativo dello Stato è, al tempo stesso, forza e garanzia della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di una offerta di servizi pubblici incardinati in sistemi regolamentari e legislativi assolutamente imparziali, sostenuti da professionalità di rango e da specializzazioni degne di questo nome.

Eppure, se vogliamo uscire dalla gabbia di una generica rappresentazione della pubblica amministrazione che in essa vede solo l’elemento malvagio e distorsivo, dovremmo avere il coraggio di analizzare il fenomeno con occhi più attenti. Personalmente, nel  corso dei vari impegni di governo che ho avuto la fortuna di ricoprire, sia a livello locale che nazionale, ho conosciuto e apprezzato il lavoro, la dedizione e la preparazione specifica di numerosi dirigenti pubblici e di consistenti porzioni di personale dipendente. Tutti animati da un buon spirito di servizio. Con questo non voglio dire che non esistano mele marce, come in ogni settore lavorativo, né che i fenomeni denunciati in premessa siano del tutto scomparsi per effetto delle riforme che pure hanno interessato il sistema pubblico in anni più recenti. Qui  preme soprattutto mettere in evidenza che non si può fare di tutte le erbe un fascio e che descrivere, come recentemente ha rilevato l’Eurispes, la macchina statale come un corpo unico, privo di specificità particolari, senza tenere in considerazione la complessa segmentazione di cui si compone, vuole dire per un verso, fornire una rappresentazione distorta e parziale del fenomeno, per l’altro, ostacolare i necessari percorsi di riforma che il sistema stesso invoca da anni.

In tale miopia, quasi certamente, risiede il fallimento di qualunque riforma sia stata finora messa in campo. I cosiddetti tagli lineari, tanto per citare le azioni più eclatanti adottate un po’ da tutti i governi degli ultimi anni, compresa la Spending review del governo dei tecnici, si sono rivelati dannosi.  E se pure, diminuendo significativamente il personale, un certo contenimento della spesa si è ottenuto, in prospettiva l’approccio al problema privo di una analisi attenta dei costi e di un contesto assolutamente eterogeneo e differenziato, a lungo andare rischia di trasformarsi in un autentico buco nell’acqua.

Intanto, si è perso di vista il “merito”.  Adottando misure lineari si è messa da parte ogni valutazione approfondita sulla capacità produttiva dei tanti segmenti che configurano la pubblica amministrazione e si è accantonata ogni idea di efficienza e di efficacia di un progetto di modernizzazione e di semplificazione della macchina amministrativa. Umiliando il valore dei dipendenti pubblici si è di fatto decretato un ulteriore impoverimento delle professionalità pur necessarie per  far fronte alle enormi sfide che il Paese ha innanzi. In più, l’affastellarsi di provvedimenti, circolari, iondirizzi spesso contraddittori l’un l’altro hanno reso ancor più complicato il lavoro dei dipendenti. Ponendoli alla berlina come principali responsabili del cattivo funzionamento della macchina amministrativa.

Si tratta, allora, di ripensare  ruoli, competenze e funzioni; di elaborare processi di selezione più adeguati alle nuove esigenze del settore pubblico, pù confacenti alla domanda che viene dai territori e dalle comunità amministrate. La modernizzazione del Paese non si misura soltanto nel contenimento dei centri di costo e nella decurtazione della spesa improduttiva, ma anche e soprattutto nella sfera della accresciuta competenza e professionalità, il cui esercizio richiede processi più snelli, strumenti  accessibili a tutti, prontezza nel fornire risposte al cittadino e alle aziende. Combattere la burocratizzazione non può significare però eliminare il valore di una burocrazia servente, sana e produttiva.

 

 

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