D’Annunzio, vita di un superuomo. Una biografia per i 150 anni dalla nascita
Immaginate l’ultimo scorcio di vita di un vecchio esteta, di un celebrato eroe di guerra il cui carisma si è solo vagamente assopito, frenato dalle rughe e dalle malattie incappucciate sotto pesanti vestaglie di broccato: così Paola Sorge ritrae Gabriele D’Annunzio, ne ricostruisce gli ultimi giorni nel dorato esilio del Vittoriale, traccia l’omaggio al poeta di cui il 12 marzo ricorre il 150esimo anniversario della nascita. E lo fa con un’originale biografia (D’Annunzio. Vita di un superuomo, Castelvecchi) in cui le parole messe in bocca al Comandante sono riprese da lettere, diari, testimonianze scritte. D’Annunzio ne emerge come un genio in penombra, sorvegliato speciale per ordine di un Duce sospettoso e guardingo, consapevole della sua reclusione, proprio lui che aveva scritto: “Non vorrò mai essere prigioniero, neppure della gloria…”.
Amava il silenzioso Vittoriale per la sua pace. Ne aveva fatto una dimora a sua immagine e somiglianza. Il Vittoriale era il suo testamento “di anima e di pietra”. Aveva ottenuto dal governo il Mas di Buccari e la nave Puglia e godeva dello stupore degli ospiti quando si trovavano dinanzi la prora che spuntava tra gli alti cipressi. Approfittava dei denari del regime per acquistare ninnoli e mobili antichi. Il governo lo “teneva buono, come un bambino capriccioso”. A volte gli pesava essere D’Annunzio, e si vendicava alimentando in Mussolini “il vago terrore di un qualche suo improvviso colpo di testa”. Non potendo più arringare le folle “viveva nel mistero delle parole creatrici di sogni e di rivelazioni, costantemente attento alle risonanze interiori del suo spirito”. Pensava alle sue imprese, all’azione più temeraria: Fiume. “Il suo tentativo di costruire una vita libera e sublime era fallito. Non gli era rimasto che un pugno di terra della Dalmazia che conservava in un cofanetto legato con un nastro dai colori fiumani”.
Conversava con il questore Giovanni Rizzo (che inviava a Palazzo Venezia rapporti giornalieri) e con il suo architetto Giancarlo Maroni, cui raccomandava decorazioni con soli raggianti e flauti di Pan: “Soffro di periodi di angoscia quasi rituali, caro fratello… e a volte divento anch’io a me stesso intollerabile”. Mentre Luisa Baccara suonava al piano Ravel, lui si struggeva tra i suoi crucci, la fine del Libro segreto e l’osteggiata alleanza con Hitler, il Nibelungo che non sopportava. A Mussolini aveva scritto: “Bada che corrono voci di dedizione al Tedesco. Si dice che il tuo governo sia disposto a restituire i beni degli antichi guastatori del Friuli e del Veneto. Sii vigilissmo e inflessibile su questo argomento: o faccio saltare la mia casa e la mia terra con un quintale di dinamite…”. Ma D’Annunzio, l’operaio della parola che stava per spegnersi, non aveva convinto il Duce.