Quanta ipocrisia su Mennea: sulla sua bara le lacrime di coccodrillo del Pd, del Coni, di “Repubblica”…
Se potesse, oggi Pietro Mennea ci metterebbe meno di diciannove secondi e settantadue centesimi per scappare dai viali del Foro Italico, da quel “salone d’onore” nel quale il Coni ha allestito la camera ardente credendo di fargli uno straordinario omaggio postumo. Ma a lui sarebbe bastata una stanzetta e una scrivania al piano di sopra, da vivo. Dovrebbe tenerlo presente il neopresidente dell’organismo che guida lo sport italiano, Giovanni Malagò, che da stamane accoglie i parenti, gli amici, gli ammiratori del grande campione sportivo. Un abbraccio non si nega nessuno, ma un incarico a Mennea lo avevano negato sempre, tutti, ai piani alti di quelle stanze che affacciano sul Tevere. C’è tanta ipocrisia dietro le celebrazioni che la politica e lo sport stanno tributando al velocista italiano, dopo averlo illuso ed emarginato per anni, nonostante il suo impegno carnale contro il doping, la corruzione, gli sprechi, nonostante quattro lauree e un curriculum universitario che i vari Malagò si sognano la notte. Pietro era stato emarginato. Lo diceva lui stesso, era scomodo, non allineato, scappava via dai politicanti e dai carrieristi militanti:«I casi di ostracismo li subisco ancora oggi, come quando, essendo stato chiamato a ricoprire l’incarico di direttore generale della Salernitana Calcio dopo alcuni giorni soltanto al presidente del club arrivo una telefonata dal Coni che consigliava il primo dirigente di mandarmi via… Nel 1994, venuto a sapere del bando per alcune cattedre all’Isef di Roma, partecipai a questo concorso; ma mi sono dovuto scontrare per l’assegnazione di una cattedra con un alto dirigente del Coni dell’epoca. Infatti, per escludermi dal concorso, sono stati costretti a falsificare i verbali… Ho sempre saputo che per me sarebbe stato difficile se non impossibile partecipare al governo dello sport…», scriveva Mennea qualche anno fa, illuso e tradito dal suo mondo, che gli ha sempre negato perfino un pubblico riconoscimento. Fino a scoprire che gli organizzatori delle Olimpiadi di Londra avevano intestato all’italiano una stazione della metropolitana, pensate, per quella straordinaria impresa contro il loro connazionale, Wells. A Londra, dunque, c’è qualcosa che ricorda Mennea, all’Anagnina no. Mennea, poco prima che iniziasse la sfida per la presidenza del Coni, a fine 2012, aveva provato a dire di nuovo la sua: «Non c’è grande differenza tra Pagnozzi o Malagò. E soprattutto non vedo idee forti. In Italia c’è di meglio, dirigenti superiori a loro». E “Repubblica”, con l’autorevole giornalista sportivo Fulvio Bianchi, aveva chiosato: «Ma Mennea fa parte del nuovo? E che idee ha per rilanciare l’atletica? Non si è mai voluto candidare: paura di perdere?». Ma c’è anche un affronto politico che il campione barlettano non ha mai digerito. Quello di chi gli impedì di diventare sindaco della sua città, opponendo un candidato forte del Pd al suo tentativo di vincere con l’aiuto del centrodestra, lui che aveva militato nell’Idv. Trattato come uno Scilipoti qualsiasi. Ma c’è anche una strana vicenda su un documentario finanziato dalla Regione Puglia (presidenza Vendola) e dedicato alle sue imprese sportive, sul quale, secondo una denuncia di un consigliere del Pd, l’allora sindaco dei Democratici, nel 2011, non volle mettere un euro e fornire la logistica. Finì che quella fiction intitolata “Diciannove e settantadue” fu girata a Otranto. Spiacevole. Come quei tweet opportunisti di chi cerca facile consenso, come quello di Bersani, su cui la rete ha sorriso, amaro. «Caro Pietro, la corsa si è fermata». E tutti hanno pensato a un avvertimento a Grasso nella sua corsa verso Palazzo Chigi.