E se fosse Violante il nome della rosa?
Con tutto il rispetto che il caso richiede, non può essere Bersani il nome della rosa per il Quirinale. Non ne ha l’aplomb e, forse, neppure la vocazione. Personalmente non ce lo vedo mentre formula gli auguri agli italiani attovagliati per il cenone di San Silvestro senza indurre in tentazione, un minuto dopo, il perfido Crozza a sparare a reti unificate una delle sue micidiali metafore. Inutile girarci intorno, Bersani è diventato la parodia di se stesso. Paga una campagna elettorale più disastrosa di quella di Napoleone in Russia e sconta, soprattutto, un dopo elezioni da brivido in cui ha dato prova di ottusa testardaggine mista ad uno scarsissimo senso della realtà e a un’ancor più scarsa dimestichezza coi numeri. Ha giocato d’azzardo – lui così emilianamente poco incline al “tutto o niente” – e ha perso. E ora stanno per lasciarlo anche sommi sacerdoti del Pd come Massimo D’Alema o antirenziani come Rosy Bindi. L’apparato che alle primarie lo ha blindato contro il sindaco di Firenze ora si guarda intorno alla ricerca di una soluzioni che salvi (dalla scissione) la capra del partito ed i cavoli della formazione del governo, senza ovviamente trascurare la corsa al Colle. Con il segretario restano i “giovani turchi”. Belle speranze, ma pochino per coltivare ambizioni di quel livello. Insomma, Bersani è fuori. Il fatto che ancora si alluda a lui come successore di Napolitano è semplicemente un elegante espediente per smuovere dalla sua testa la pazza idea di Palazzo Chigi. Del resto, non lo voterebbero i grillini né, per motivi ovviamente diversi, il Pdl, che bene ha fatto a proiettare tutta la propria attenzione sulle elezioni presidenziali. I futuri equilibri si decidono lì. Occorrono scelte coraggiose, adeguate e soprattutto in grado di rimettere in moto la politica.
In tal senso, è più che apprezzabile l’idea che si è messo in testa Fabrizio Cicchitto, quella di Luciano Violante. È un’idea su cui vale la pena soffermarsi un attimo perché ha almeno il merito di tracciare una traiettoria politica in una fase in cui ognuno suona in solitario senza minimamente preoccuparsi di raccordarsi con gli altri. Ed anche perché proviene da un esponente di matrice socialista, di quella parte politica, cioè, che non ha mai fatto mistero di vedere in Violante il puparo del “manipulitismo” milanese prima e delle indagini sui rapporti tra mafia e politica dopo. Violante è stato sempre sospettato di essere il regista della liquidazione selettiva della Prima Repubblica e quindi della distruzione delle forze del pentapartito con annesso salvataggio del Pci-Pds e della sinistra dc. È quindi un’idea, quella dell’ex capogruppo del Pdl alla Camera, che prima di uscire sulle agenzie di stampa ha dovuto vincere un bel po’ di resistenze, diffidenze e pregiudizi interiori. Ma questa circostanza la rafforza poiché la depura dalle inevitabili strumentalità, che pure le sono sottese, e la consegna al novero delle cose politicamente e simbolicamente feconde, cioè capaci di segnare il passaggio da una fase a un’altra. Il conflitto politico nella cosiddetta Seconda Repubblica è stato combattuto soprattutto su due fronti: quello della proprietà dei mezzi d’informazione e quello della giustizia, entrambi aggravati dal conflitto d’interessi di Berlusconi. È una guerra intorno a cui le istituzioni stesse si sono avvitate fino a precipitare nell’attuale situazione di incomunicabilità tra forze politiche. Una condizione, questa, mai conosciuta in Italia neppure nei momenti più drammatici della nostra vicenda nazionale come il terrorismo o la guerra civile strisciante degli anni ’70. L’elezione di Violante al Quirinale potrebbe avviare la chiusura del devastante contenzioso tra politica e magistratura, cui ha offerto un’inattesa anticipazione proprio il voto di febbraio sancendo, da un lato, l’inadeguatezza politica dei partiti intorno ai quali si era costruito e consolidato il bipolarismo e, dall’altro, punendo irreversibilmente il velleitarismo giustizialista dei tre ex pm, Ingroia, Di Pietro e De Magistris.
Opportunamente, Cicchitto ha motivato la propria proposta evidenziando l’evoluzione del pensiero di Violante sul rapporto tra politica e giustizia anche se è inutile nascondersi che sono gli stessi motivi per i quali la sinistra ispirata da Travaglio e Santoro guardino a lui con malcelata diffidenza. A questi ambienti non sfugge che l’elezione dell’ex presidente della Camera al Quirinale con il concorso attivo del PdL è prodromica all’eclissi dell’antiberlusconismo e quindi del giustizialismo come continuazione della politica con altri mezzi. È la storia di sempre: rispondere al conflitto d’interesse di Berlusconi con l’interesse al conflitto contro Berlusconi.
È invece l’ora del disarmo. Già quando fu eletto il più alto scranno di Montecitorio, Violante seppe pronunciare parole di apprezzato equilibrio all’indirizzo dei “ragazzi di Salò”. Anche allora ci furono polemiche, prese di posizione e persino qualche anatema. Ma alla fine il messaggio passò contribuendo non poco alla reciproca comprensione tra due Italie, entrambe convinte delle proprie ragioni. Ora, in una situazione fortunatamente diversa, occorre fare più o meno la stessa cosa: superare la contrapposizione pregiudiziale per incanalare il conflitto nelle regole della politica. Ma, per farlo, occorre che la politica faccia la propria parte. La sortita di Cicchitto fa ben sperare.