Il balletto continua, ma la gente (anche di sinistra) vuole eleggere direttamente il presidente della Repubblica
Il Pd cambia cavallo e si affida Prodi. Scelta tra le più infelici perché profondamente divisiva. E non è detto, comunque, che regga fino in fondo. È l’ulteriore tappa di quel “suicidio” assistito di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi. Che sia l’ex-premier o D’Alema o perfino Rodotà o che torni in pista, come qualcuno si azzarda ad ipotizzare, Marini, la storia di questa elezione presidenziale è segnata. Nel senso che il popolo, smarrito e confuso, come riportano giornali, televisioni e soprattutto siti web, non ne può più di questo indecente spettacolo che brucia nomi ed illusioni e fornisce l’immagine di un Paese sclerotizzato, prigioniero di formule politiche arcaiche.
Mi ha impressionato ascoltare ieri sera al Tg3 Carlo Freccero, sicuro uomo di sinistra, che sosteneva come la gente ormai fosse stufa del carosello barocco dal quale dovrebbe venir fuori il presidente della Repubblica, niente di meno che il simbolo, l’interprete ed il custode dell’unità nazionale. E aggiungeva che nella sensibilità comune ormai l’elezione diretta del capo dello Stato si è fatta strada e non è vista più come un’anomalia. Semmai l’anomalia è questa rincorsa a cercare un nome purché sia legittimato soltanto da discutibili giochi di potere.
Nel tempo della democrazia elettronica, dunque, è necessario cambiare e in fretta.
Constatiamo, malinconicamente, che a sessantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione non sono ancora stati individuati meccanismi meno insulsi e più partecipativi per eleggere colui che dovrebbe costituire il punto di riferimento civile e morale degli italiani. Un decrepito parlamentarismo, neppure sbiadita immagine di quello che disegnarono i costituenti, si arroga il diritto di mandare sul Colle un signore (o una signora) in ragione di compromessi da basso impero: c’è chi si è spinto in questi giorni a scambiare la presidenza della Repubblica con la presidenza del Consiglio. Una vera e propria simonia laica o secolare, non diversa nello spirito a quanto accadeva tra il Quattro-Cinquecento nell’elezione alla Cattedra Petrina di Pontefici che compravano la loro elezione.
Di fronte all’urgenza di un vero cambiamento politico, istituzionale e culturale, ci chidiamo a perché la Repubblica presidenziale debba restare ancora un tabù per la classe politica, ma non per i cittadini, e non c’è nessuno, in sintonia con il popolo, che prenda l’iniziativa di introdurre la discussione intorno a tale tema che non dovrebbe suscitare negative reazioni dal momento che in buona parte del mondo essa funziona magnificamente ed il Parlamento non soltanto legifera in piena libertà, ma esercita un controllo sugli atti presidenziali più di quanto il nostro Parlamento non faccia su quelli dell’Esecutivo.
Il presidenzialismo da sempre è stato uno dei cavalli di battaglia della Destra italiana, ma non soltanto della Destra. Anche all’Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all’attenzione la “soluzione presidenzialista”: i rappresentanti del Partito d’Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s’impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell’Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo.
Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”. Agli inizi del decennio successivo furono alcuni “giovani leoni”, come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo “Europa ’70″, che posero all’attenzione le tematiche presidenzialiste. Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento della forma di governo. Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante. Ricordo anche una fiorente pubblicistica che circa trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all’attivismo del professor Gianfranco Miglio e del cosiddetto “Gruppo di Milano”.
La tematica presidenzialista, quindi, ha avuto lungo corso nella storia della Repubblica, sia da punto di vista dottrinario che nel dibattito politico.
Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale “forte”, non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversi dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo.
Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari.
La formula della Repubblica presidenziale ha pure, oltretutto, una sua carica di suggestione quasi “mitica” perché avvicinando direttamente i cittadini al potere si produce un meccanismo di immediata comprensione proponendosi quale rottura rispetto ad un sistema come l’attuale dove le degenerazioni partitocratiche sconfinano nel trasformismo e nella lacerazione del patto fiduciario con gli elettori.
Se la scelta presidenzialista resta sullo sfondo delle possibilità, declinata nel modo che si reputa più opportuno, credo sia una possibilità che non dovremmo lasciarci sfuggire. Sia pur tenendo presente che il contesto non è favorevole all’apertura di una stagione di riforme, ma che soltanto da un’Assemblea costituente, sottratta alla dialettica parlamentare ed allo scontro tra i poteri dello Stato, potrà nascere una Nuova Repubblica. La Repubblica degli italiani.