La solita faziosità “comunista”. Così Bersani ha perso l’occasione per riconciliare il Paese
Tra l’esigenza di compattare il partito e la possibilità di pacificare la nazione, Bersani ha scelto la prima e gettato alle ortiche la seconda. Può restarne sorpreso e persino deluso solo chi in questi anni ha creduto alla vulgata di una sinistra tutta compostezza e regole condivise, veltronianamente protesa alla derubricazione del nemico in avversario e dalemianamente disposta a far prevalere le ragioni alte della politica sui pur comprensibili interessi di bottega. Non è vero niente: la sinistra resta fazione. Non si spiega altrimenti la decisione di innalzare Prodi agli onori del Quirinale e di insignirlo del ruolo di garante dell’unità nazionale a dispetto della cifra della sua attività politica, costantemente tesa ad impedire al nostro gracile e primitivo bipolarismo di diventare finalmente adulto. Il Professore ha scavato fossati e innalzato steccati. Si è nutrito di antiberlusconismo fino a diventarne simbolo e vindice. Ha usato spesso il filo spinato, quasi mai quello di cotone. Ha lacerato, ma non cucito. E infatti il suo nome rischia di imporsi solo per effetto di contestazioni ad opera di sparutissime minoranze e sulla scorta di un’intimidazione ai danni di una parte della classe dirigente del Pd, quella di matrice popolare, costretta di fatto ad ingurgitarlo come un vaccino per scongiurare guai peggiori.
È l’effetto del clima di esasperazione nel Paese di cui la sinistra è abilissima regista. È un’antica consuetudine che le deriva dall’amara consapevolezza di essere irrimediabilmente minoranza politica. I numeri difettano, ma vale la voce per urlare ed insultare. C’è un che di irrazionale, anzi di autenticamente isterico, nella pretesa – non del tutto abbandonata – di spacciare, ad esempio, il nome di Stefano Rodotà, personalità dell’establishment radical-chic che difficilmente susciterebbe tanto entusiasmo se ad eleggere il presidente della Repubblica fossero i cittadini, come l’unico in grado di assicurare condivisione e solidarietà nazionale. È il solito vizio di scambiare il proprio ombelico per il centro del mondo.
Ma tant’è: sferzata da Grillo, che ne ha proposto il nome, e mobilitata dai vari salotti televisivi, che lo hanno issato sugli scudi, la sinistra va alla guerra, decisa a regolare i conti di un mai del tutto sopito scontro interno. Da qui l’insano clima di ostilità, al limite dell’odio, che ha finito per bruciare nomi tutti interni alla storia ed alla tradizione del Pd come Marini, Amato e persino D’Alema. Non più fondatori del partito, ma dirigenti infedeli fortemente indiziati di inciucio con il detestato Caimano, ossia il più grave ed imperdonabile delitto politico agli occhi della base democrat. Persino in un frangente così decisivo per la vita della nazione come l’elezione del capo dello Stato, il vertice Pd preferisce rinfoderarsi nel comodo rifugio dell’antiberlusconismo. Il diktat arrivato via tv e via web è chiaro e la nomenclatura vi si adegua supinamente, com’è ormai tradizione di un partito che di fatto ha rinunciato a far politica pur di correre dietro alla piazza. Moriranno per mano grillina, puri, però, e giammai colpevoli di aver una sola volta fornicato con il Cavaliere.
Riemerge prepotente quell’estremismo che mai come in questo caso, però, è la vera malattia senile del comunismo. Povera Italia!