Prendere o lasciare: Il Pd nel guado, dopo le frustate di Napolitano
Alle cinque della sera, l’orario canonico delle corride, va in scena la direzione nazionale del Pd. Nell’ordine, dovrà provare a convicere Bersani a ritirare le dimissioni; dovrà, nell’eventualità più che probabile che il segretario uscente non ci ripensi, stabilire chi mandare alle consultazioni sul Colle; dovrà decidere, soprattutto, la linea politica da tenere e stabilire se appoggiare o meno il governo del presidente, altrimenti detto delle “larghe intese”.
Il clima è quello della resa dei conti. La maggior parte dei democrat non ha digerito il discorso di Napolitano che è stato sì un atto d’accusa al sistema dei partiti, ma tutti lo hanno letto come un irato ammonimento soprattutto a loro, i suoi ex-compagni che hanno messo, con la complicità di Grillo, la Repubblica in ginocchio.
Proveranno a correre ai ripari e qualcosa pure cercheranno di inventarsi, rimandando al congresso le decisoni ultime sul destino del partito. Non è detto, tuttavia, che le cose fileranno lisce. Già si manifestano inquietudini, turbamenti e dinieghi all’idea di appoggiare in qualche modo l’esecutivo. Se un Civati diche che “i traditori faranno i ministri”, mentre furbescamente il “giovane turco” Orfini propone che Renzi faccia il premier ed i rottamatori gli rispondono per le rime subdorando il “trappolone” che lo brucerebbe, la Bindi esprime tutte le sue perplessità prossime alla contrararietà allo schema del Quirinale e la Finocchiaro, più accomodante e realista, sostiene che questa volta “la faccia ce la dobbiamo mettere”.
Una corrida è certamente esercitazione più tranquilla di uno scontro al calor bianco all’interno del Pd. Staremo a vedere se i toreri riusciranno ad avere la meglio sul demone della dissoluzione del partito che da settimane aleggia a Largo del Nazareno.
“La frustata di Napolitano”, come titola oggi “l’Unità” (curiosamente alla stessa maniera de “Il Tempo”) è arrivata a segno. La mestizia dei democrat è forzata, innaturale, come un voto di castità subito più che accettato. La loro logorrea, infatti, si è spenta. Non hanno più ricette salvifiche. Accasciati sui divani dei talk show, smarriti e confusi, provano a balbettare qualcosa mon non a metter i piedi nel piatto dicendo alle loro platee che la democrazia rappresentativa non è la stessa cosa della democrazia assembleare: una volta delegata la propria volontà – attraverso il voto, le primarie, i congressi – non ci si può sovrapporre alle classi dirigenti liberamente elette e tenere aperto un canale di contestazione perenne attraverso twitter, facebook ed altri social network che arrivano a valanga minacciosi, come per chiedere una consultazione permanente con la “mitica base”.
Ma che idea del partito è stata inculcata a questi giovanotti “duri e puri” che, nell’occasione dell’elezione presidenziale, hanno scoperto Rodotà soltanto perché Grillo lo ha proposto in seconda battuta tra l’altro e un mondo, molto piccolo in verità, si è mobilitato in favore di questo signore sconosciuto ai più del quale i manifestanti irati di certo non hanno mai letto una riga dei suo concettuosissimi libri (imparai a conoscerlo agli inzi degli anni Settanta sbattendomi sulle pagine del suo testo di diritto privato che studiavo in aggiunta ai più “classici” Trabucchi e Rescigno ne apprezzai l’indiscutibile dottrina e la capacità di rendere fruibili “materiali” oggettivamente ostici; poi l’ho seguito, quasi mai condivedendone le idee, nelle sue coltissime scorribande sui diritti, mentre gli articoli pubblicati su “Repubblica” non mi hanno mai convinto)?
Probabilmente un’idea anarcoide della politica delle cui conseguenze la stessa oligarchia è responsabile per aver immesso nelle liste gente fragile e culturalmente poco avezza alla frequentazione delle ideologie e molto sensibile ai richiami della democrazia virtuale, ma non certo alle pulsioni del territorio, ai problemi veri della gente. Non è un caso che il Pd non sia più capace di organizzare manifestazioni di piazza ed anche nell’ultima campagna elettorale i suoi leader abbiano tenuto incontri sottotono in teatrini amici.
Il “partito chiuso” oggi deve comunque “aprirsi”. Una risposta a Napolitano la deve dare a tutti i costi. E non può essere in politichese, tipo fatevi il governo noi daremo un appoggio esterno sui provvedimenti che ci convincono. Troppo comodo. Questa sarabanda l’hanno cominciata loro credendo di aver vinto le elezioni che comunque non hanno tecnicamente perso anche se politicamente ne sono usciti distrutti, i come i fatti di sono incaricati di dimostrare.