Thatcher, il conservatorismo che diventò “rivoluzionario”
La storia dirà se è riuscita ad interpretare il conservatorismo meglio di altri nel secolo passato. Ma fin d’ora possiamo affermare, senza tema di smentita, che Margareth Thatcher è riuscita nella difficilissima impresa di rivitalizzarlo scommettendo sul realismo, sulla concretezza, sulla visione della rinascita nazionale in un tempo segnato dall’utopismo social-comunista che nella sua Gran Bretagna minacciava di sommergere un ordine difeso, nonostante tutto, con le unghie e con i denti dall’establishment indipendentemente dal fatto che a Downing Street si alternassero tory e laburisti.
Nel 1979, quando divenne primo ministro, aveva cinquantaquattro anni e le idee molto chiare sul futuro del suo Paese. Imboccò decisamente la strada del monetarismo e della lotta all’inflazione con interventi che colpirono l’industria manifatturiera e fecero lievitare momentaneamente la disoccupazione. Dovunque sarebbe stata defenestrata. I suoi connazionali e soprattutto il suo partito la sostennero invece e le diedero il tempo di poter far maturare i frutti di quelle riforme. In breve tempo, e non solo in Gran Bretegna, si accorsero che aveva avuto ragione e dal 1982, fino al 1990 quando uscì da Downing Street con la stessa umiltà con la quale vi era entrata, governò più che con l’autorità con l’autorevolezza che si era conquistata sul campo.
Certo, gli scontri con i minatori furono estenuanti; la fermezza nella prima crisi internazionale che si trovò a fronteggiare, quella con l’Iran e poi la mano ferma con cui affrontò i terrorristi dell’Ira ed ancora la guerra delle Falkland-Malvinas la imposero sulla scena internazionale come una conservatrice tutta d’un pezzo che non cedeva alle lusinghe internazionaliste, nè ammiccava al pacifismo strumentale al sovversivismo che si proponeva di far saltare per aria le società borghesi.
Visse un tempo in cui la grande ideologia sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale annaspava: il comunismo e le sue derivazioni socialiste egemoni in Europa ritenevano di avere lunga vita e nessuno immaginava che in un decennio avrebbero fatto naufragio. Qualcuno giudicò imprudente, per esempio, l’essersi messa contro i sindacati che nel 1984 intrapresero l’astensione dal lavoro ad oltranza per opporsi alle sue leggi a tutela di chi voleva lavorare e per ridurre i costi delle aziende in perdita che gravano sullo Stato e mettevano a repentaglio il welfare britannico difeso perfino durante la guerra, orgoglio della nazione che era riuscita, fin dopo la rivoluzione industriale, a coniugare nel miglior modo possibile, per come i tempi permettevano, le ragioni della solidarietà con quelle del rigore economico.
La Thatcher non poteva sopportare che ciò per cui generazioni di suoi connazionali si erano sacrificati naufragasse sotto il peso della demogogie sindacali: il suo lascito fu apprezzato perfino da Tony Blair, non a caso aaccusato dall’ala più radicale del partito laburista di “thatcherismo”.
Sul piano interno e su quello internazionale l’impegno della prima donna diventata primo ministro di Sua Maestà fu tutta volta alla lotta frontale al comunismo, trovando alleati – sia pure sui piani diversi – per una di quelle felici coincidenze della storia, Ronald Reagan e Giovanni Paolo II: personaggi che consideravano quello che allora veniva definito l’Impero del Male come un pericolo comune da abbattere. Ed ognuno fece in proposito la sua parte.
Ci si chiede se il conservatorismo della Thatcher possa essere in qualche modo riproposto ancora oggi. Credo non sia affatto superato. Con lei si è rinnovato nel linguaggio e nella prassi. Le privatizzazioni, per esempio, sono uscite dal lessico accademico per diventare acquisizione comune. Così come la fine dell’ingerenza dello Stato nell’economia ha ridato respiro al corpi reali della società praticando ciò che all’epoca nessuno si sognava di definire sussidiarietà e ponendo di fatto le basi per quella Big Society che oggi è uno degli assett politico-sociali del neo-conservatorismo di David Cameron.
Mutando il modo di praticare la politica dei Tory, paradossalmente la Thatcher ha accelerato quel processo di decomposizione e di ricomposizione che ha segnato i laburisti i quali con Blair e l’ideologo Antony Giddens hanno scoperto un’idea di partecipazione affatto classista che appartiene a pieno titolo al bagaglio culturale thatcheriano.
È stata, dunque una “rivoluzionaria conzervatrice”, nel senso chd ha innovato pratica politica ed approccio economico (l’economia di mercato ha tratto linfa decisiva dalle sue leggi), salvaguardando i valori della nazione e della famiglia che, a ben vedere, sono state le due stelle dalle quali si è fatta guidare, fino a quando una terribile malattia non l’ha devastata nella mente e nel corpo, ma – vogliamo credere – resa più forte nello spirito.