Contro la strage degli innocenti rivalutare la cultura della vita
Oggi a Varese, ieri a Palermo, l’altro ieri da qualche altra parte. Il Belpaese sta diventando la terra di Erode con un numero impressionante di bambini strappati alla vita da genitori infelici, madri depresse, padri disperati. E quel che è peggio è che l’infanticidio fa notizia ma non mobilita. Diversamente dal femminicidio (neologismo orribile, il cui contrario non è omicidio bensì maschicidio), che affolla piazze e talk-show, la morte violenta dei minori è vista dall’informazione come sequenza di terribili episodi addizionati l’uno all’altro. A parlare se ne parla, certo, fin nei minimi dettagli e con una precisione che spesso straripa nella morbosità, ma senza riuscire ad elevarla a spaventosissima emergenza in una società quasi del tutto priva di riferimenti e, per giunta, alle prese con una devastante crisi economica che sta travolgendo antiche e consolidate certezze. Insomma, la strage degli innocenti, ché di questo si tratta, resta confinata nei testi sacri.
Dovrebbe invece accadere il contrario e cioè indugiare meno nella pedissequa e raccapricciante rendicontazione dei particolari di queste atroci vicende, anche al fine di non scatenare l’effetto emulazione oggi dilagante, e puntare di più sulla denuncia di quel che non funziona in termini di messa in sicurezza dell’infanzia nella famiglia, nella scuola, nella sanità.
Ma tant’è: l’antipolitica nell’informazione tradizionale ha finito per deresponsabilizzare progressivamente chi politico non è. L’ossessiva indicazione del politico come “untore”, alfa ed omega di ogni nefandezza, vera o presunta, ha “liberato” tutto gli altri dall’assolvimento dei propri doveri. Il risultato è una società di indignati, di arrabbiati, di impazienti in servizio permanente effettivo cui un’informazione certamente non immacolata né disinteressata ha offerto in pasto la “casta” degli eletti, pardòn dei nominati, ma non quella dei banchieri, degli speculatori, in definitiva dei veri padroni del vapore.
Forse, si dovrebbe cominciare a raccontare una storia un po’ meno in bianco e nero e riscoprire il gusto di un giornalismo d’inchiesta capace di scavare in profondità nelle pieghe di una società inquieta e inferocita e non solo di piazzare un microfono davanti alla bocca di un capocomitato. Forse, si dovrebbe rivalutare il valore della vita da opporre ad una cultura della morte allegramente declinata in nome di un infinito diritto ai diritti che sta disgregando in profondità il nostro tessuto connettivo. Forse, bisognerebbe riflettere in maniera meno acritica su tante, strombazzate, “conquiste” della modernità e forse bisognerebbe ricominciare a dire che i figli – anche quando nascono in famiglie disastrate – restano testimonianza della benevolenza e della grazia divina. E scusate se è poco.