È morto Giulio Andreotti
Giulio Andreotti è morto oggi alle 12,25 nella sua abitazione romana. Uomo politico italiano fra i più conosciuti ma anche molto discussi, era nato a Roma il 14 gennaio 1919. Ha dominato la scena politica degli ultimi cinquant’anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli Esteri, due volte delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno. Entra alla camera come deputato democristiano nel 1948 e viene rieletto anche nelle successive legislature. L’attività di governo inizia a 28 anni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi. Nel 1954 fece il salto e diventò ministro. Il suo feudo elettorale era la campagna a sud di Roma, da dove proveniva la sua famiglia: Fiuggi, Anagni, Alatri, antichi possedimenti delle nobili famiglie capitoline, diventarono centri della sua rete elettorale e clientelare. Politicamente rappresentava l’ala più conservatrice e clericale della Dc, i suoi avversari interni erano i fautori del centrosinistra, come Moro e Fanfani. Ottime le sue entrature in Vaticano, estesissima la sua rete di contatti internazionali. Fu nel 1972 che riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio. Lo scelsero con scarsa convinzione, per dar vita a un governo di centro dalle scarse prospettive. E infatti fu il governo più breve della storia repubblicana: solo 9 giorni, dalla fiducia alle dimissioni.
Ma il nostro non si scoraggiò. Già allora sapeva che “il potere logora chi non ce l’ha” e che “a pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina”. Queste due massime rappresentano la sintesi perfetta del pensiero politico andreottiano e sono ormai espressioni comuni. Per una di quelle curiose alchimie della politica che caratterizzavano la prima repubblica, fu lui, l’uomo della destra Dc, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni Settanta, con l’appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito quale era la sua più grande dote: conciliare gli opposti, smussare gli angoli, digerire le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi. Il leader socialista non lo vedeva di buon occhio e fu lui a coniare il soprannome di Belzebù. Andreotti era “la volpe che finirà in pellicceria”. Ma qualche anno dopo dopo, di nuovo a Palazzo Chigi, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con Craxi : erano gli anni del “Caf” (dalle iniziali di Craxi , Andreotti e Forlani) e l’opposizione di sinistra lo considerava come il peggio del peggio della politica italiana. Nel 1991 viene nominato da Cossiga senatore a vita.
Con la crisi della prima Repubblica Andreotti esce di scena. Non entra nelle indagini di Tangentopoli ma a metà degli anni ’90 viene processato da due procure: quella di Perugia e quella di Palermo. I magistrati umbri lo accusano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979. Dopo 169 udienze, il 24 settembre 1999 viene pronunciato il verdetto che lo assolve “per non aver commesso il fatto”. Ma un’altra accusa scuote l’imperturbabile Andreotti: quella di essere colluso con la mafia. Secondo i magistrati Andreotti avrebbe favorito la mafia nel controllo degli appalti in Sicilia attraverso la mediazione di Salvo Lima. Il processo di primo grado si chiude il 23 ottobre 1999: Giulio Andreotti viene assolto perché “il fatto non sussiste”.