In Italia un presidenzialismo monarchico ma senza legittimazione popolare

2 Mag 2013 14:36 - di Agostino Carrino

Quel che è accaduto negli ultimi mesi, dopo le elezioni di febbraio per il rinnovo del Parlamento, relativamente alla (ri)elezione del Capo dello Stato (anche da me auspicata  al seguito della proposta di Ferruccio de Bortoli) e alla formazione del nuovo governo, merita di essere commentato da un punto di vista giuridico e istituzionale che lasci da parte, per un momento, le preferenze personali e  il grave disagio sociale che il governo Monti ha tutt’altro che lenito, anzi aggravato.

Il primo dato di un’evidenza palmare è il fatto che la forma di governo della Repubblica è sostanzialmente mutata, senza però che sia stata revisionata la Carta costituzionale: il nostro sistema è oggi quello di una Repubblica ‘semipresidenziale’, sul modello della V Repubblica francese. Il Presidente del Consiglio è chiara e diretta emanazione del Presidente della Repubblica, che ne controlla, di fatto, le scelte (a partire da quella sui ministri), l’indirizzo politico, i progetti, la tenuta dinanzi alle Camere: è più che naturale definire il nuovo governo un governo politico, ma di una Repubblica oramai diversa da quella immaginata da i costituenti.

In tutto ciò non vi sarebbe nulla da obiettare, se questa forma di governo fosse stata voluta e deliberata da un’Assemblea costituente votata dal popolo. Il problema è che vi si è arrivati sull’onda della necessità e dell’emergenza, senza nessuna riflessione, nessuna discussione, nessuna decisione. Il ricorso al concetto (introdotto da Costantino Mortati) e alla definizione di “costituzione materiale”, che qualcuno probabilmente vorrebbe impiegare, è sbagliato dal punto di vista dottrinale, ma serve a far capire che c’è ormai una rottura evidente tra il dettato formale della Carta e la struttura sostanziale delle procedure, dei poteri e degli effetti.

Va detto che il modello così detto ‘semipresidenziale’ non è, come si crede, un presidenzialismo dimezzato, ma può essere (come di fatto è stato in Francia) o un superpresidenzialismo o uno pseudopresidenzialismo, ovvero o una sorta di monarchia, quando Capo dello Stato e Capo del Governo sono della stessa parte, o la premessa dell’inefficienza, quando, per esempio, Il Capo del Governo si basa su una maggioranza parlamentare (la cui fiducia è necessaria) politicamente diversa da quella che ha votato il Capo dello Stato (così con il gollista Chirac e il socialista Jospin).

Né il presidenzialismo americano deve essere interpretato come un sistema politico dove il Presidente decide tutto, perché non è vero: gran parte dei poteri del Presidente (di un sistema federale) sono il risultato dell’uso sempre più radicale della dottrina dei poteri impliciti: due sono state le svolte fondamentali, la prima con Lincoln, che di fatto cambiò sostanzialmente la costituzione diventando un dittatore commissario; la seconda con F.D. Roosevelt, che fece un piccolo ‘colpo di Stato’ contro i giudici della Corte suprema (quanti democratici e giustizialisti odierni lo sanno o lo ricordano?). In sostanza, come si è visto anche recentemente, il potere presidenziale negli Usa è fortemente limitato sia dalle decisioni ‘legiferanti’ dei giudici costituzionali (pure tutti di nomina presidenziale), sia dai poteri del Congresso, che può persino bloccare decisioni importanti del Presidente.

La forma effettivamente vigente oggi in Italia si avvicina così pericolosamente alla prima versione del ‘semipresidenzialismo’ francese, la versione ‘monarchica’, ma senza nessuna legittimazione popolare e senza una legittima previsione costituzionale. Anche questo per dire che in Italia è diventato veramente urgente por mano ad una riforma della Costituzione che riveda la forma di governo e i rapporti tra i poteri (compresi quelli con il cd. potere – meglio sarebbe dire ordine – giudiziario) ben oltre ogni schema preconfezionato e ogni interesse di parte. Chi scrive in tempi non sospetti chiese (cfr. gli scritti da me raccolti in La destra e le libertà, Guida 2010) l’istituzione di una Convenzione nazionale per la riforma delle istituzioni e la riscrittura almeno di  parte della Costituzione (la forma di governo e il Titolo V, ma anche le norme sulla giustizia, ben oltre la risibile novella del 111 sulla ‘giustizia giusta’). È auspicabile che ciò finalmente accada. Se il governo di Enrico Letta riuscirà in questa impresa, con l’accordo di Silvio Berlusconi, si saranno messe le basi per un rinnovamento oramai improrogabile dell’Italia. E tutto ciò, è auspicabile, in una prospettiva non di ‘importazione’ o ‘imitazione’ di modelli altrui, ma secondo i bisogni, la natura, la storia (da correggere, ma non da violentare) del popolo italiano. Per evitare che i guasti, sempre più gravi, nella conformazione etica degli Italiani, diventino una sostanza immutabile e non più riformabile.

 

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