La destra ha perso la bussola? Ricominci a leggere Gramsci e Machiavelli
Il direttore del Secolo d’Italia, Marcello de Angelis, ha in più occasioni sollevato il problema di una rivitalizzazione strategica della destra politica in Italia. Chi scrive ha per un certo tempo sperato che Gianfranco Fini potesse rappresentare un’alternativa ad un’incertezza politica che riguarda vecchie e nuove generazioni e tutti coloro consapevoli dei rischi che stanno correndo l’Italia come sistema “nazionale”, ma anche, più in generale, l’idea di una cultura politica e forse della cultura semplicemente. Quella esperienza è fallita e anche ingloriosamente finita, com’era facile prevedere già al raduno di Bastia Umbra, all’epoca dell’improvvida richiesta che Berlusconi facesse «un passo indietro», senza che nessuno fosse in grado di motivarne le ragioni, avendo egli da poco vinto le elezioni, tra l’altro anche grazie allo stesso Fini, il quale a sua volta molto doveva proprio a Berlusconi. La politica si fa sulla base delle idee e degli interessi generali, non certo delle antipatie o degli odi personali.
Il fallimento del progetto di Fini – se mai esistito – è però spia di una situazione più generale, che ancora non è stata analizzata e studiata in tutta la sua complessità e che deve essere riconosciuta prima di affrontare un discorso sulla “ricomposizione della destra politica”. In realtà, da più di vent’anni a questa parte, prima di Tangentopoli e cioè già con il successo della Lega Nord di Umberto Bossi (non il padre del Trota, ma l’animale politico che allora sembrava essere), abbiamo assistito a una lenta trasformazione del ceto politico italiano che ha fatto gradualmente scomparire un personale politico discutibile, ma ancora in qualche modo politicamente legittimato, per fare spazio ad una “classe politica” nuova, priva di legittimazione perché radicalmente estranea e fondamentalmente disinteressata alla politica in quanto tale, di cui probabilmente ignora persino la natura e le regole, che non sono molto diverse da quando Tucidide raccontava l’apologo dei Melii o Machiavelli scriveva il Principe, esattamente cinquecento anni or sono. Anzi, diciamolo apertamente: quanti degli attuali “politici” italiani sanno ancora di cosa si parla quando si cita l’apologo dei Melii e quanti hanno letto Machiavelli, Gramsci o Weber? E non mi riferisco solo ai furbastri dell’armata brancaleone guidata dal (finto) comico genovese.
Cominciamo con la sinistra. Quando i comunisti hanno voluto lasciare la vecchia tradizione della “via italiana al socialismo” lo hanno fatto senza interrogarsi sugli errori, le carenze, le menzogne e perfino i crimini che hanno caratterizzato la storia del Partito comunista italiano, pensando che bastasse dimenticare Marx e cambiare nome al partito con qualche lacrimuccia di circostanza. Si sarebbe invece dovuto spiegare per quali ragioni storiche la sinistra comunista abbandonava l’idea di una società socialista e di un’economia mista, rinunciava al centralismo democratico, al mito e ai riti del partito onnisciente e mandava in soffitta la politica delle “riforme di struttura”, un programma che appare ancora oggi tutt’altro che banale.
E così i comunisti – compreso quel Giorgio Napolitano che aveva approvato l’invasione dell’Ungheria e che con Amendola riteneva intoccabile il mito dell’Unione sovietica vincitrice del “nazifascismo” – si ritrovarono da un giorno all’altro per metà democristiani e per metà liberisti, anzi più liberisti di Hayek, come accade a tutti i neofiti. Il padre di Fabrizio Barca, Luciano, dirigeva una vecchia rivista oggi scomparsa; si chiamava “Stato e mercato” e poneva problemi che, a rileggerla oggi, ci si meraviglia a vedere quanta modernità contenesse proprio perché i suoi collaboratori avevano ben presenti i limiti del mercato, la necessità dello Stato e i rischi di un suo intervento incoerente nell’economia. Quanti, nel Partito democratico, ricordano o conoscono le elaborazioni di quella rivista? Se l’antropologia del politico “democratico” oggi fa intravedere contorni asinini è anche perché nessuno ha ritenuto necessario l’esercizio non superficiale di quel metodo della critica e dell’autocritica che pure era stato il crisma della vita sociale dentro il Partito comunista. Senza critica e senza autocritica si sono così ritrovati a cantare le lodi di Mario Monti, le cui qualità scientifiche consistono nel difendere la funzione ‘salvifica’ delle banche e del capitale finanziario nel sistema produttivo.
Se oggi la sinistra è allo sbando, in Italia, è perché si tratta di personaggi in cerca d’autore, per i quali ciò che conta è rottamare un Veltroni o, di rimando, definire “miserabile” il “rottamatore”. Cosa c’è di politico in tutto questo? Credo nulla. La sinistra, in Italia, semplicemente non esiste perché non hanno saputo elaborare il lutto, riflettere, studiare, capire. Oggi la sinistra avrebbe bisogno di un nuovo Marx e forse anche, per prima cosa, di tornare a studiarlo. Significativamente, le ragioni che hanno portato alla crisi della sinistra sono le stesse che hanno portato alla crisi della destra. Il Movimento sociale italiano volle andare a passare le acque a Fiuggi, per “depurarsi” delle scorie del post-fascismo, pensando che bastasse, anche qui, bere qualche bicchiere d’acqua, mentre occorreva ben altro. Si scelse la foglia di fico di Domenico Fisichella come esponente di una destra “diversa”, che avrebbe dovuto far dimenticare certe nostalgie, quel monarchico liberale Fisichella, che pare non trovasse di meglio che consigliare al solito Fini di studiare Joseph de Maistre. E pare che quello volesse poi farlo davvero, se è vero il racconto di un mio collega francese, esperto di Maistre, che una volta mi chiese che fine avesse fatto quel politico italiano che una volta gli telefonò per parlare di Maistre: proprio lui, Gianfranco Fini, il futuro, inamovibile Presidente della Camera.
Ora, con tutto il rispetto (dovuto al grande de Maistre, il giacobino nero), passare da Gentile o da Evola a Maistre non era per la verità il salto di cui la destra italiana aveva bisogno. Direi anzi che proprio questo attardarsi su terreni e figure storicamente lontani (per Gentile il discorso è diverso, ma più complesso) è stato il grande errore che ha portato la destra italiana a perdere un po’ alla volta se stessa, consentendo che si passasse da Lucio Colletti alla Minetti, dimenticando del tutto la ricca stagione intellettuale che per un po’ sembrava aver conquistato il mondo della destra (si pensi a Ideazione e ai suoi convegni). E così, mentre la sinistra diventava filo-capitalista e cultrice del libero mercato, la destra perdeva gradualmente la bussola che l’aveva caratterizzata per decenni, ovvero l’idea del primato della politica e del non-primato dell’economia, lasciandosi contemporaneamente invadere da un libertarismo americanoide del tutto contrario al senso dell’autorità e dello Stato che dovrebbe ancora caratterizzare una destra politica seria.
Così, il tema della forma di governo si è andato vieppiù scolorendo, benché, per esempio, la richiesta di una riforma presidenzialista fosse originariamente il fulcro di una battaglia ideale trasformatasi poi, per ragioni complesse, nella mera difesa del Presidente Berlusconi dagli attacchi insensati della sinistra. Tutta la lotta politica si svolge ormai da vent’anni intorno alla persona di Silvio Berlusconi, una lotta che ha ha di fatto scomposto tutti i termini della questione e trasformato le battaglie ideali in mere guerre di posizione, nell’attesa di non si sa più che cosa. Perfino il grande tema del federalismo, che correttamente inteso dovrebbe essere il fulcro intorno al quale riorganizzare la destra in Italia (perché la destra classica è sempre stata federalista di contro a una sinistra centralista) si è pian piano sfaldato perdendo ogni serietà progettuale.
Va detto che il deteriorarsi del panorama politico in Italia, con la scomparsa dei fronti tradizionali dello scontro, se è molto accentuato da noi, non è sconosciuto nemmeno altrove, per esempio in Austria, dove si fa strada il partito di Franz Stronach, un eccentrico miliardario ottuagenario che fa politica unicamente intorno alla sua persona. Ciò perché la fine delle ideologie non riguarda solo l’Italia, ma – almeno in una certa misura – tutto il mondo, con i suoi effetti positivi, ma anche con i suoi esiti negativi. Le ideologie non sono soltanto dogmatismi o l’anticamera dei fanatismi, ma anche – se rettamente intese – la premessa di un discorso razionale e organizzato intorno alla coerenza dei principi scelti e posti alla base di un progetto politico pragmaticamente perseguibile. Da questo punto di vista, dalla crisi attuale si esce, a mio modo di vedere, soltanto con un grande sforzo intellettuale di ripensamento dei valori e dei princìpi (e forse dei prìncipi), i quali in un mondo plurale sono certamente molti, come insegnava Max Weber, ma comunque non infiniti. Nessun partito o progetto politico può fare a meno di una giustificazione culturale, se non vuole prima o poi diventare preda di semplici interessi personali o scomparire nel nulla: la cultura non è una ‘sovrastruttura’, ma il motore stesso di ogni trasformazione sociale. Chi non capisce questo è destinato, sul breve-lungo periodo, a perdere.
Per chiudere queste brevi note, voglio riassumere dicendo che il problema della ricomposizione della destra, in Italia, si associa e va di pari passo con quello della ricomposizione e creazione di una nuova sinistra sulle ceneri della vecchia. Così, ciò di cui oggi ha bisogno l’Italia è una nuova destra, non nel senso della nouvelle droite di Alain de Benoist, ma nel senso di una destra all’altezza delle sfide del XXI secolo, che si lasci quindi alle spalle anche il vecchio bagaglio di parole d’ordine superate, come dio, patria e famiglia, di una destra vecchia che pensa che i valori siano sempre e solo quelli “religiosi” rappresentati dalla chiesa cattolica. Ma anche di una destra capace di riappropriarsi del senso della decisione politica, che vuol dire saper guidare e non soltanto lasciarsi guidare (semmai dai sondaggi). Il baratro che si allarga tra i (sempre più) ricchi e i (sempre più) poveri esige una rinnovata etica della responsabilità, ma anche convizioni morali meno deboli di quanto siano oggi. E qui la morale di cui si ha bisogno non può più essere la vecchia morale eteronoma che si rifugia nel confessionale, ma una morale individuale di natura superiore. Una nuova destra presuppone una nuova sinistra e viceversa. Né l’una né l’altra possono nascere in un giorno, ma per l’una e per l’altra, se si studia, si pensa, si discute, si lavora, potrà valere, prima o poi, il detto del vecchio Marx: «ben scavato, vecchia talpa!».