Ma la storia del “Divo” Giulio non è un romanzo criminale
Il solo declinare le generalità era già rivelatore della complessità del personaggio: Giulio Andreotti, dove al nome evocativo della grandezza e della potenza romana corrispondeva un cognome assai ordinario, a metà tra un mezzemaniche ministeriale e il titolare di una bottega di alimentari. Non a caso l’aggettivo “Divo” era accompagnato solo al primo e mai al secondo.
Una doppiezza che lo ha caratterizzato lungo tutto l’arco della sua intensa esistenza. Simbolo delle istituzioni e imputato (assolto) di collusione con l’antistato, amico dei papi e Belzebù, battutista brillantissimo e uomo dei misteri. La vulgata ufficiale lo voleva custode unico dei più inconfessabili segreti nazionali grazie ai quali manovrava come marionette interi pezzi di Stato, dai politici ai militari, ai magistrati ai servizi segreti. La sua gobba è la scatola nera della Repubblica, dirà più tardi qualcuno con insuperata arguzia. Ma era solo una leggenda metropolitana. La realtà si è poi incaricata di dimostrare che l’intangibilità politica di Andreotti era molto molto presunta, tanto è vero che è stato ad un passo dall’essere condannato in via definitiva per reati infamanti.
Tra i grandi leader democristiani è stato quello certamente più accostabile al carattere medio degli italiani. Se Moro risultava astratto e fumoso e Fanfani iroso e imprevedibile, Andreotti era un impasto perfettamente riuscito ancorché tipicamente nostrano di pazienza e tenacia, intelligenza e furbizia. Dello statista pugliese non aveva certamente la capacità di visione mentre del secondo non riuscì ad emulare lo spirito organizzativo. Non a caso erano loro due i “cavalli di razza”. Andreotti, invece, di cavalli, conosceva solo quelli dell’ippodromo di Capannelle. Ma sui risultati raggiunti il Divo non era secondo a nessuno. Anzi. Se al congresso dc di Napoli del ’62 Moro parlò ben nove ore per spiegare la fine del centrismo e l’avvio dell’alleanza con i socialisti di Nenni e se Fanfani lasciò le penne di segretario politico nella disperata battaglia contro il divorzio, ad Andreotti riuscì l’impresa di essere l’ultimo a presiedere un governo di centrodestra con i liberali, nel 1972 e, quattro anni più tardi, il primo a guidarne uno con i comunisti nell’area della maggioranza. Lui non seminava, piuttosto raccoglieva. E va perciò considerata una vera pennellata d’artista la battuta di chi lo voleva intento ad inciuciare con il sagrestano mentre De Gasperi parlava con Dio.
Già, De Gasperi, che di Andreotti fu mentore e maestro. Un legame che il sette volte presidente del Consiglio e senatore a vita oggi scomparso ha sempre onorato. Ne ricavai testimonianza diretta quando da ministro delle Comunicazioni partecipai con lui, membro competentissimo ed assiduo della Consulta filatelica, alla presentazione di un francobollo celebrativo della politica estera dello statista trentino. Andreotti fu molto sbrigativo. Il mio intervento fu invece abbastanza articolato. Tracciai anche un parallelismo tra il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti inaugurato da De Gasperi nell’immediato dopoguerra e quello perseguito dal governo Berlusconi. Evidentemente colsi nel vivo. Fatto sta che sovvertendo ogni regola del cerimoniale, il sempre compassato Andreotti impugnò il microfono per precisare che nella visione degasperiana l’opzione americana era, a dispetto della geografia, solo la strada più breve per rilegittimare l’Italia in Europa.
Certo, Andreotti è anche il campione di una politica opaca, compromissoria, molto incline al soddisfacimento del particulare. Della destra è stato a lungo nemico e non tanto per ragioni storiche, ideali o riferibili ai valori propugnati quanto perché ne fiutava l’insidiosa concorrenza sul piano elettorale. Quando il Msi di Almirante vinse le elezioni del ’72, lui parlò di «voti democristiani in libera uscita» che presto sarebbero «tornati a casa». Era così e fu così. Ma fu così solo in virtù di un assetto internazionale, figlio della Guerra Fredda, che rendeva quello italiano un sistema politico privo di alternanza di governo. E probabilmente c’è anche il suo zampino nella scissione a destra da cui, nel ’76, nacque Democrazia Nazionale.
Andreotti è stato Belzebù, uomo di molti misteri e capocorrente di Salvo Lima, il potente viceré siciliano ucciso dalla mafia ai cui capi non riusciva più a garantire l’impunità. È stato questo e tante altre cose ancora. La sua vicenda umana e politica è densa di ombre ma non è stata quel che alcune procure ben munite di pentiti poi giudicati inattendibili hanno tentato di accreditare. La Dc, ormai prossima alla fine del proprio ultradecennale dominio, non seppe o non volle difenderlo. La codardia le impedì di capire che le accuse di mafiosità rivolte al suo leader si sarebbero riversate sull’intero partito. Era il secondo tempo della profezia del Moro prigioniero delle Brigate Rosse. Ma i democristiani finsero di non capirlo.
Una volta un giornalista straniero chiese ad Andreotti che cosa avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. «Qualche sciocchezza», fu la sua lapidaria e democristiana risposta. Chissà se mai hanno riflettuto abbastanza sul significato profondo di questa apparente battuta quegli onnipotenti magistrati che, attraverso le accuse montate contro di lui, hanno tentato di riscrivere la storia d’Italia come un interminabile romanzo criminale.