Siria, la “rivoluzione” eterodiretta è fallita. E adesso?
La “rivoluzione” in Siria è fallita. Se dopo due anni di guerra civile il governo è ancora al suo posto, vuol dire che è un governo stabile. Mentre la Primavera araba sta mostrando i suoi limiti in tutti i Paesi dove si è svolta, a Damasco non è proprio iniziata. La “rivoluzione” è fallita perché i presupposti erano diverso, e solo ora lo si sta iniziando a capire. Mentre in Egitto, Tunisia, Libia c’era un sia pur debole presupposto per un cambiamento di regime, e la popolazione è scesa in piazza tutto sommato spontaneamente, almeno una parte, in Siria non c’è mai stata un’opposizione significativa al regime – perché è un regime – di Bashar al Assad, il mite medico oculista trovatosi all’improvviso e contro la sua volontà a guidare il Paese alawita a causa della morte prematura del fratello, che era il successore designato alla presidenza. Quella della Siria è stato un tentato golpe contro il governo legittimo – legittimo quanto possa essere un governo in un Paese arabo – studiato a tavolino dall’Occidente e da alcuni Paesi vicini decisi a fare il salto di qualità nello scacchiere internazionale, e soprattutto mediorientale. E’ partito nella stessa maniera di altri: ossessiva campagna mediatica contro le presunte atrocità del regime, finanziamenti ai gruppi di opposizione anche a livello di armi, promesse di assistenza futura, ingaggiamento di mercenari nei Paesi arabi a suon di dollari e di garanzie di impunità. E, successivamente, promessa di intervento di una qualche alleanza militare occidentale che ratificasse con aerei e carri armati lo status quo. In realtà, questa operazione standard è poi fallita dovunque nel lungo periodo: Bosnia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Somalia, oltre che, come accennato, nei Paesi della Primavera araba, dove però il giudizio rimane sospeso. Ma la lezione non è servita, la grancassa si è messa in moto, solo che il regime di Assad ha resistito all’attacco concentrico con tutti i mezzi. I metodi dei “rivoluzionari” sono venuti inopinatamente alla luce,si è capito che un governo non usa autobomba né armi chimiche contro il proprio popolo, si sono scoperti veri e propri centri di arruolamento per i mercenari anti-Assad un po’ in tutto il Maghreb, soprattutto in Tunisia. Assad ha poi utilizzato una nuova arma difensiva: quella di minacciare di armare i vicini contro i suoi nemici, primo fra tutti Israele, che per difendersi a sua volta da questo fenomeno, ha iniziato i raid aerei. E qui ovviamente si è innescato un meccanismo pericolosissimo: Russia e altre nazioni hanno intimato a Israele, e di conseguenza a Stati Uniti e Francia, di cessare un attacco proditorio verso quello che rimane uno Stato sovrano, così la situazione è a un punto di stallo. Lo stesso Obama ha fatto marcia indietro, sostenendo che in realtà non è chiaro chi abbia usato le armi chimiche, se il regime o i ribelli. Perché, come nel caso dell’Iraq, l’uso delle armi chimiche è la linea di confine sull’intervento armato dell’Occidente “in nome della pace”. Come emerso qualche giorno fa, le armi chimiche sono state sconsideratamente utilizzate dal ribelli ad Aleppo e, secondo l’intelligence siriana, dette armi provenivano dalla Turchia, non si capisce se hanno solo transitato per la Turchia o se Ankara le ha addirittura fornite. Comunque sia, la comunità internazionale – stranamente – si è fermata a riflettere: dalla cronaca di un dittatore feroce che stermina il suo popolo che osa protestare, si è passati a una visione più possibilista. Ora la parola dovrà essere data per forza alle diplomazie, garantendo sia Assad e il suo popolo, sia il dissenso di quel Paese. In ogni caso, il sangue deve cessare di scorrere al più presto. Sembra che siano decine di migliaia le vittime in due anni di insurrezione armata, le ong dicono ottantamila, ma si sa che in questi casi vengono dati i numeri al lotto per terrorizzare l’opinione pubblica contro il nemico di turno. La morale? Che forse se il Pentagono avesse fatto un serio studio sulla reale consistenza delle forze armate siriane, qualcuno non si sarebbe imbarcato nell’ennesima avventura militare a non lieto fine. Ora si spera in una nuova conferenza di Ginevra sul futuro della Siria, proposta dagli Usa assieme alla Russia (dovrebbe tenersi a Ginevra all’inizio di giugno, scrive il quotidiano panarabo al Hayat). E questa è la prima delle novità dopo mesi di dialogo tra sordi tra Washington e Mosca.