Caro Cavaliere, la politica come la storia non consente ritorni

14 Giu 2013 17:17 - di Mario Landolfi

Si può ricorrere al Battiato della indimenticata Prospettiva Nevski (“e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”), scomodare addirittura il Panta rei di Eraclito (“nessuno può tuffarsi due volte nelle stesse acque di un fiume) e persino rifugiarsi nel disincanto di Marx (“la ripetizione di un evento storico è sempre farsa”), insomma c’è solo l’imbarazzo della scelta per ricordare agli immemori che raramente la storia concede il bis. E quando lo fa, l’esecuzione ha sempre un corto respiro. È una regola antica e conosciuta, raramente ricordata però, anche perché i protagonisti cercano sempre di scansarla per non farsene mai archiviare. Ne sanno qualcosa vecchi fusti del calibro di Napoleone e Mussolini, demiurghi idolatrati dai propri popoli, che chiusero nel dramma dell’esilio e nella oltraggiosa tragedia del linciaggio la loro epica esperienza politica, entrambi, però, non senza aver prima riacceso l’illusione del ritorno. I cento giorni del Còrso, la Salò del Duce. Al loro riapparire, le passioni riesplosero, ma giusto il tempo di combattere un’ultima battaglia o di assecondare un sogno di effimera riconquista. C’è poco da fare, la storia è come lo spettacolo. Continua anche quando i suoi attori più capaci sono costretti ad abbandonare la scena. Stupisce, perciò, non poco che uno come Berlusconi – sebbene ”caso unico di statista entrato nella storia senza passare dalla politica”, secondo la magistrale definizione di Giuliano Ferrara – abbia dimenticato l’aurea regola del palcoscenico e voglia tornare a recitare da “attor giovine” in una nuova stagione politica. Proprio lui, universalmente riconosciuto come impareggiabile anticipatore di tendenze e di mode, il leader dotato di fiuto e di istinto grazie ai quali è sempre riuscito per primo a tagliare il traguardo, l’imprenditore di successo con tutti e due i piedi nel futuro, proprio lui si è messo in testa di tornare alla casella di partenza, di rifare Forza Italia, lucidarne il logo, spolverarne il nome e ri-propinarlo agli elettori magari già alle prossime elezioni europee. Così, come se tutto fosse uguale a vent’anni fa. Una pazza idea senz’altro, ma a quanto pare molto apprezzata dal ristretto gruppo dirigente che ne ha ricevuto comunicazione nel corso di una cena a Palazzo Grazioli. Tra i presenti, sembra che solo un dirigente educato ai precetti dell’antico testamento politico, cioè Fabrizio Cicchitto, abbia sollevato qualche fondata obiezione. Ma il punto non è questo e neppure lo strologare di falchi e colombe, quanto di capire se al ritorno al passato (ché di questo si tratta) sia sottesa una strategia politica o se, al contrario, esso sia solo funzionale ad una logica di sopravvivenza in attesa di tempi migliori. In tutti e due i casi, occorre chiedersi che fine faranno coloro che nel PdL non sono targati Forza Italia. È chiaro che il solo riproporne il nome equivale ad un decreto di espulsione nei loro confronti, soprattutto dei pochi superstiti scampati al genocidio della destra. C’è da chiedersi come reagiranno. Usciranno dal Pdl, subiranno in silenzio o chiederanno un congresso straordinario? La 1, la 2 o la 3? E ancora: continuerà ad esistere un centrodestra coalizzato o arriverà il tana libera tutti? Insomma, è un indietro tutta o si va avanti? Comunque sia, si può star certi che fino all’ultimo il Cavaliere non scoprirà le sue carte. Nel frattempo si gode lo scompiglio in cui ha gettato quella parte (non piccola) del Pdl che vede come il fumo negli occhi l’idea di un partito affidato regione per regione alla cura di un altisonante nome dell’imprenditoria locale con il compito di provvedere al fund raising, in lingua maccheronica alla caccia al tesoro per mantenere sedi ed organizzazione. Una scelta decisamente retrò nel pur nobile tentativo di rivitalizzare lo spirito del ’94, ormai incatenato al famoso discorso della discesa in campo di un Berlusconi allora percepito come alfiere e vindice di una società civile oppressa e soffocata dalla partitocrazia. Del resto, non esiste un’operazione nostalgia che non contenga in sé l’immancabile ritorno alla purezza delle origini. L’ennesimo dejà vu. Il guaio è che quando in politica prevale il torcicollo si finisce fatalmente – a dirla con Guccini – “per dire cose vecchie con il vestito nuovo”. Con la differenza, però, che stavolta è vecchio anche il vestito.

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