”Eurolandia” è solo un feticcio, è ora di riscoprire la nazione per fare l’Europa

10 Giu 2013 12:17 - di Mario Landolfi

Si può parlar male dell’Europa? Non dell’Europa intesa come l’insieme di stati, nazioni, popoli, culture, tradizioni che ha praticamente “fatto” il mondo, bensì di Eurolandia, cioè di quell’intricato ed astruso complesso di poteri tecnoburocratici che ha preteso con successo di riunire sotto un’unica moneta economie, sistemi fiscali, finanziari, produttivi molto diversi tra loro? L’interrogativo è da tempo nell’aria e causa non pochi imbarazzi, com’è fatale ogni qualvolta un punto di domanda si accinge a scalfire o addirittura ad abbattere un totem. Ma il tempo della risposta è ormai maturo e molto probabilmente si dovrà rispondere di sì.
Sì, forse è persino doveroso prendere le distanze da un’Europa che ha scaricato circa tremila anni di storia e di civiltà nei parametri di Maastricht, nell’agenda di Lisbona o nelle direttive di Bruxelles. È questa Europa che dopo aver perso nel 1945 la propria centralità culturalpolitico-militare in favore dei grandi spazi americani ad Ovest e russo ad Est, sta cercando, nel nome dell’euro, di riproporsi all’attenzione del mondo come forma più evoluta e riuscita di “mercato perfetto”. Con risultati, però, devastanti per i suoi popoli.
Ci siamo dotati – come europei – di una moneta comune con alle spalle una banca centrale, la Bce, cui è impedito per statuto di intervenire come prestatrice di ultima istanza, cioè stampando soldi alla bisogna. Una vera anomalia – praticamente ignota a tutte le altre aree valutarie – che ha reso l’euro il bersaglio preferito dalla speculazione. Ma alla Germania va bene così. I tedeschi considerano la Bce poco più di una filiale della Bundesbank e quando non se ne sentono troppo garantiti, la mettono sotto attacco. Chiedere per conferma al governatore Mario Draghi, finito sotto la lente d’ingrandimento della Corte Costituzionale germanica per il suo interventismo a difesa dei debiti sovrani. Una decisione più che saggia, la sua. A Berlino, però, non l’hanno presa bene. E ora il resto del continente è col fiato sospeso in attesa del verdetto, previsto per l’autunno, che ne attesterà la legittimità.
Come la Bce, anche la moneta comune è tale solo per modo di dire. In realtà, l’euro è il vecchio deutschmark che circola sotto falso nome e, per di più, supervalutato, con la differenza che ora circola in Paesi con economie diversissime di cui ha finito per esasperare squilibri e disuguaglianze. “Tedesca”, inoltre, è stata la lettura della causa della crisi, sbrigativamente individuata nei debiti “sovrani”, e “tedesca” la soluzione adottata per uscirne, ossia il cieco, ottuso rigore nelle politiche di bilancio.
Di fronte alla macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, i fondatori del sogno europeo – Schumann, De Gasperi, Adenauer, Spaak – si prefissero l’obiettivo di pacificare il Vecchio Continente. Per riuscirvi, dovevano “europeizzare” la Germania. Non è accaduto, ma si è “germanizzata” l’Europa. E così, l’ambizioso progetto di accomunare in un’unica grande patria i nemici di sempre ha oggi le sembianze di una banca mutilata, di una moneta senza padri, di miliardi di risparmi bruciati dalla speculazione, di imprese strozzate dai debiti, di eserciti di disoccupati. In compenso, ci balocchiamo con il “mercato perfetto”, tutto regole astratte, procedure farraginose e divieti. Il risultato è che mentre l’economia europea è ingabbiata, quella cinese addirittura vola, così quella indiana, coreana, brasiliana, australiana e via elencando. Ma pure gli Stati Uniti hanno ripreso a marciare e così il Giappone, guarda caso i titolari dei due più grandi debiti pubblici del mondo. I governi di questi Paesi reagiscono ai morsi della crisi con politiche sovrane delle quali si assumono per intero la responsabilità di fronte ai cittadini ed ai mercati. Quelli europei, invece, pretendono di ovviare alla deregulation imposta dalla globalizzazione cedendo sovranità e soffocando l’economia in lacci e lacciuoli normativi, procedurali e regolamentari. Alla Germania può andar bene. Ha un primato manifatturiero, soprattutto qualitativo, che consente al suo prodotto di non essere imitabile e quindi aggredibile da quelli confezionati a basso costo in Cina o in India. Per noi è diverso. Il prodotto italiano non ha un’elevata intensità tecnologica. È quindi riproducibile da altri. Uno dei motivi per cui molte nostre aziende chiudono è proprio questo. Il secondo è la delocalizzazione della produzione in altre aree del pianeta ritenute più vantaggiose sotto il profilo fiscale e del costo del lavoro. Sono problemi che non si risolvono in un amen. Proprio per questo postulano l’esistenza di un governo nazionale pienamente legittimato ad agire sul proprio territorio. Ma Eurolandia non lo consente. Al nostro Sud occorrerebbe la fiscalità di vantaggio per attrarvi investimenti produttivi, ma non si può se non in accordo con Bruxelles che non lo sarà mai. E così il cane si morde la coda. Risultato: mentre le nostre imprese si spostano nei “sud” del mondo” – Romania, Albania, Cina – la nostra classe operaia va in paradiso.
È una situazione intollerabile rispetto alla quale sono cure palliative la sospensione dell’Imu, dell’aumento del punto Iva o la detassazione per i nuovi assunti. Al contrario, la crisi in atto impone una radicale rivisitazione dei fondamentali su cui poggia l’Europa attuale, l’Eurolandia della finanza, della tecnocrazia, della burocrazia, verso la quale diventa ogni giorno più robusto il sentimento di diffidenza se non di aperta ostilità da parte di sigle, partiti e movimenti sempre più numerosi e sempre meno ascrivibili d’ufficio alla categoria degli estremismi. In Italia, anche per effetto di un europeismo trasversale a quasi tutte le culture politiche, una forza d’opinione capace di mobilitare energie intorno ad un progetto alternativo non appare ancora individuabile. Lo sarebbe stata la Lega se avesse saputo, potuto o voluto farsi portatrice di un’istanza nazionale e non di un macroregionalismo ormai finito in burletta.
Gira e rigira, l’unico leader che periodicamente punta il dito ammonitore verso Eurolandia è Berlusconi, ma non tutto il PdL sembra attrezzato a sostenerne lo sforzo. E si capisce: quella “sovranista” è un’opzione politica che trova nella cultura della nazione il suo naturale retroterra. Averla prima immolata sull’altare dell’asse con Bossi e poi di fatto sfrattata alle ultime elezioni politiche rischia di non rivelarsi un buon affare.

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