Il coma dell’economia non autorizza balletti. In caso di crisi riaprire le urne
Non ci voleva la zingara per prevedere che il combinato disposto tra l’apertura, poi ridimensionata, del Pd all’opzione presidenzialista e le nubi giudiziarie che vanno addensandosi sulla testa di Berlusconi, può far saltare come un tappo il precario equilibrio che tiene in piedi il governo.
Piaccia o no, il sistema sta avvitandosi su se stesso e poco nulla potrà fare per porvi rimedio la pur qualificata e folta schiera di tecnici ed esperti chiamati da Letta a far da sherpa al Parlamento sulle riforme istituzionali. Un pacchetto di ambiziose modifiche da approvare in un anno e mezzo. Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi perché è pur vero che da poco più di un mese si è insediato un inedito governo Pd-Pdl con i montani in ruolo di cuscinetto, ma è altrettanto vero che esso c’è soprattutto per la tenacia di Napolitano e per l’insospettata pazienza di Berlusconi. A farlo nascere non è stata però la comune volontà di archiviare la “guerra dei vent’anni” unita alla volontà di gettare le basi per un arioso e proficuo progetto riformatore, ma molto più realisticamente un calcolo dettato dal reciproco istinto di autoconservazione. Il risultato è che i nodi veri forse appaiono meno visibili che in passato ma restano tutti lì, un po’ come fa chi finge di far pulizia nascondendo la polvere sotto il tappeto. E le conseguenze si vedono.
Il Pd è consapevole di essere ancora in piedi solo per grazia (presidenziale) ricevuta, ma resta alto il rischio implosione qualora sulle modifiche alla Costituzione dovesse discostarsi dall’ortodossia conservatrice incarnata dai vari Zagrebelsky e Rodotà con la convinta approvazione di Repubblica. Sul versante opposto è il Cavaliere a mostrare insofferenza. Né governo né Quirinale sono riusciti nel miracolo di trasformare l’accordo politico in tregua giudiziaria. Anzi, sarà certamente del tutto casuale ma la sensazione che si ricava accostando (abusivamente) le due questioni è che le tensioni tra PdL e toghe stia per riacutizzarsi. Nel bel mezzo di queste tensioni, c’è Letta. Il premier può contare sul Quirinale ed ancora ma in misura sempre più flebile sui berlusconiani. Strano a dirsi, l’incognita si chiama Pd. L’opa non ancora ostile di Renzi sulla segreteria rischia di mandare in frantumi le complicate alchimie distillate dalla vecchia nomenclatura, più propensa ad un passaggio di consegne il più dolce possibile tra il traghettatore Epifani e chi gli succederà alla guida del partito. Il clima rovente, tuttavia, non sembra propiziare scambi di delicatezze. Tutt’altro. Inutile evidenziare che con il Rottamatore a largo del Nazareno, lo sfratto di Letta da Palazzo Chigi diventa un semplice automatismo.
In realtà, il governo somiglia ad un corpo legato a due quadriglie di cavalli incitate a correre in direzioni opposte. I falchi dei rispettivi schieramenti hanno buon gioco ad agitare questioni identitarie nel Pd o a drammatizzare quelle legate alle attese sentenze della magistratura nei processi che vedono imputato il capo del PdL. Il loro comune obiettivo è la caduta del governo. E qui ci fermiamo perché oltre c’è l’esclusiva competenza del Quirinale seppur nei limiti posti dai numeri e dalla decenza politica. L’impressione è che si stia navigando a vista in un mare zeppo di scogli. Il voto anticipato potrebbe perciò costituire la soluzione più lineare. Paradossalmente, ma non troppo.