La dignità della persona è un bene da tutelare ovunque: il carcere non può diventare arbitrio
È lecito ai giorni nostri parlare della tortura? E’ un tema ancora attuale? E alcuni fatti assurti alle cronache giudiziarie negli ultimi tempi vanno semplicemente catalogati come incidenti di percorso, o siamo di fronte a fenomeni diffusi, tipici di una subcultura sistemica che si annida e si nasconde nelle pieghe di alcune strutture statali (ospedali psichiatrici, centri di igiene mentale, carceri)? E perché in Italia,nonostante sia stata sottoscritta l’adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, che richiede agli Stati di incorporare il crimine della tortura all’interno della propria legislazione nazionale e di punire gli atti ad essa collegati con pene adeguate, la tortura non è reato ?
Non si tratta di domande campate in aria, purtroppo. Anche se il rischio di cadere nella trappola delle generalizzazioni c’è, in un Paese dove la comunicazione viene spesso falsata da una pessima informazione e sottoposta allo stillicidio di uno scandalismo fine a se stesso. In un Paese dove, in molti casi, le inchieste si basano su teoremi e non su riscontri probatori. Con il risultato che il castello accusatorio sovente si sfalda per la sua interiore fragilità e per oggettive carenze negli elementi che dovrebbero sostenerne l’impianto. Fatto sta che il tema proposto merita di essere affrontato e discusso, senza remore e complessi.
Ad Uno Mattina l’argomento è stato al centro dell’intervista ai familiari di Stefano Cucchi e Francesco Mastrogiovanni. Due casi giudiziari di cui si è molto parlato nei giorni scorsi. Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni, viene arrestato per droga il 16 ottobre di quattro anni fa . Ricoverato all’ospedale Pertini , muore per fame e sete sei giorni dopo. Dall’inchiesta emergono risvolti inquietanti. Si ipotizza che il giovane abbia subito, prima del ricovero, percosse e violenza. La sentenza di primo grado condanna i medici che avrebbero dovuto curarlo e manda assolti infermieri e agenti della polizia penitenziaria. La storia di Francesco Mastrogiovanni è non meno penosa. Ricoverato per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) il maestro del Cilento, noto per le sue idee anarchiche, viene lasciato per 82 ore legato mani e piedi in un letto di contenzione in un ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania. Il caso balza alle cronache grazie ad una trasmissione televisiva e alla tenacia di una nipote del Mastrogiovanni che si dà da fare per mostrare in un filmato come era stato ridotto il pover’uomo. La sentenza , anche in questo caso, è di condanna per chi ha procurato indicibili sofferenze al cinquattottenne insegnante.
In ambedue gli episodi emergono indizi che configurano trattamenti che ledono la dignità e il corpo delle persone. Ne intaccano l’equilibrio. Violenze inaccettabili che si abbattono su persone indifese, inermi, spogliate nella loro intimità e distrutte nella personalità. Qui non si tratta, è bene precisarlo, di emettere giudizi sommari su episodi controversi, né di mancare di rispetto nei confronti di sentenze pur discutibili. Anche se nei casi citati le immagini prodotte non lasciano dubbi sul trattamento riservato alle vittime. Si tratta, più esattamente, di perimetrare l’illecito, di configurarlo in termini di abuso e di violenza procurata e di danno inflitto, che può portare a spezzare la vita di un essere umano. La forza di uno Stato democratico e di diritto – ecco un punto da mettere in rilievo – sta soprattutto nella capacità di fissare i confini di un comportamento non riconducibile all’arbitrio di un “eccesso” di potere o a uno stato di eccezione.
A parlare di tortura c’è sempre la preoccupazione di un ritorno al passato; alle grandi battaglie che da Verri in poi hanno animato la scena. Una sorta di lavacro in cui affogare le colpe collettive disseminate in ogni dove nel corso dei secoli. Salvo, poi scoprire , nei reportage su Abu Ghraib che si tratta di una pratica ancora presente nel mondo civilizzato e sotto tutte le latitudini. Proprio dalla consapevolezza di dover contrastare questa pratica diffusa ma assai nascosta che nasce la Convenzione dell’Onu del 1994. Il cui pregio è, soprattutto, quello di porre la persona, con la sua dignità e fisicità, al di sopra di tutto. Trattare gli esseri umani come persone è il primo e il più sacrosanto dei principi cui nessuno dovrebbe venir meno. In qualsiasi condizione e in qualunque Stato.
Il paradosso in cui ci troviamo, in Italia, è che non avendo configurato la tortura come reato specifico, con i suoi caratteri peculiari e le relative sanzioni, lo si sostituisce, a volte, con lesioni, lesioni gravi e via dicendo. Confondendo così l’effetto con la causa. Non ci vuole molto a capire che quello è il risultato di un’azione criminosa, non l’azione in sé. Ed è quest’ultima che va definita giuridicamente e sanzionata penalmente. In caso contrario continueremo ad avere un vulnus legislativo e sentenze contraddittorie.