Ricordando Giuseppe Tucci, l’«esploratore del Duce» che prefigurò l’Oriente globale
Giuseppe Tucci, il massimo orientalista italiano del Novecento, nacque il 5 giugno del 1894. In questo fine settimana la sua figura sarà al centro di un convegno di due giorni ad Ascoli Piceno con due mostre dedicate all’esploratore e “pellegrino in Tibet”, una sulla vita dello studioso e un’altra sulle tangka tibetane, rotoli di stoffa con disegni sacri il cui significato fu studiato e approfondito da Tucci. La bibliografia completa delle sue 360 opere si trova nella monumentale monografia L’esploratore del Duce di Enrica Garzilli, che ricostruisce l’avventurosa vita di Tucci dai primi viaggi nelle valli dell’Himalaya e nelle pianure del Gange all’attività diplomatica in Giappone, dagli incontri con personaggi come Gandhi e Tagore, il Dalai Lama, Julius Evola, Fosco Maraini e Giovanni Gentile, suo grande protettore insieme a Giulio Andreotti, agli scavi archeologici in Pakistan, Afghanistan e Iran. In un saggio sulla rivista Eurasia Claudio Mutti ha sottolineato quale fosse l’idealità di fondo del lavoro di Tucci, cioè una concezione di Oriente e Occidente non come realtà separate ma come realtà “complementari”. Egli stesso in un’intervista apparsa su La Stampa nel 1983, un anno prima di morire, aveva dichiarato: “Io non parlo mai di Europa e Asia, ma di Eurasia…”.
Nato a Macerata, si laureò in Lettere presso l’Università di Roma. Dopo avere combattuto negli anni della Prima Guerra mondiale iniziò il suo cursus honorum in India, dove insegnò cinese (oltre che italiano) presso le Università di Shantiniketan e di Calcutta. Nominato Accademico d’Italia nel 1929, nel novembre dell’anno successivo fu chiamato ad occupare la cattedra di Lingua e letteratura cinese all’Orientale di Napoli. Nel novembre 1932 passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma, dove fu professore ordinario di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente, finché nel 1969 venne collocato a riposo. Dal 1929 al 1948 compì otto spedizioni scientifiche in Tibet e dal 1950 al 1954 sei in Nepal. Nel 1955 iniziò le campagne archeologiche nella valle dello Swat in Pakistan, nel 1957 quelle in Afghanistan, nel 1959 in Iran.
Nel febbraio del 1933 si concretizzò la sua idea di un Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, grazie all’appoggio di Giovanni Gentile. Nel discorso inaugurale, pronunciato in Campidoglio, Mussolini rilevò: “Come già altre volte, in periodo di crisi mortali, la civiltà del mondo fu salvata dalla collaborazione di Roma e dell’oriente, così oggi, nella crisi di tutto un sistema di istituzioni e di idee che non hanno più anima e vivono come imbalsamate, noi, italiani e fascisti di questo tempo, ci auguriamo di riprendere la comune, millenaria tradizione della nostra collaborazione costruttiva”. Due anni prima, grazie al tramite di Giuseppe Tucci, Gandhi era venuto in visita ufficiale in Italia. Dopo la guerra l’Ismeo venne chiuso e Tucci (sul quale pesava la firma apposta sull’infame Manifesto della razza) cadde in disgrazia. Fu Giulio Andreotti a far riaprire l’Istituto. Grazie alla sua amicizia il celebre studioso potè lavorare e studiare fino all’ultimo. Le sue opere restano un caposaldo per gli studi su induismo, buddismo e sulle tradizioni tibetane.
Così Geminello Alvi racconta un episodio della spedizione in Tibet del 1935 guidata da Giuseppe Tucci: «Il 1 luglio incontrarono il giovane abate d’un monastero buddhista, vestito di rosso e appena uscito da un eremo dove aveva trascorso tre anni, tre mesi e tre giorni, meditando. Tucci gli chiese di sperimentare le liturgie sottili che sommuovono l’Io, liberando attese stupefatte e pavide: l’ottenne. E vide che quanto gli uomini chiamano “Io” non è che una crosta sottile in bilico dentro un cosmo inatteso e infinito». (Uomini del Novecento, Adelphi).