Anche Loro Piana diventa francese, ora il made in Italy rischia di diventare solo un bel ricordo

9 Lug 2013 18:28 - di Mario Landolfi

Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, Stefano Bi, Acqua di Parma, Gucci, Brioni, Bottega Veneta, Pomellato, Valentino, Missoni, Ferré, Cova, Galbani, Invernizzi, Locatelli, Parmalat e, infine, solo ieri, Loro Piana. Eravamo il giardino d’Europa, siamo diventati il centro commerciale del mondo per il sollazzo di arabi e francesi, tra i più attivi nello shopping dei nostri marchi d’eccellenza. Ne abbiamo persi così tanti da poter innalzare con i loro nomi un obelisco egizio. E non è da escludere che li abbia passati mentalmente in rassegna anche il presidente Napolitano nel suo accorato appello all’orgoglio nazionale in vista dell’Expò di Milano del 2015.

Sono gli effetti della globalizzazione. Che non è un’idea astratta, un bel concetto da citare nei convegni, bensì un assetto concretissimo del nostro tempo. Nella sua più intima essenza, la globalizzazione è competizione tra territori, sui quali esercita una fortissima pressione selettiva finendo per separare i contesti in cui è conveniente investire da quelli in cui è penalizzante restare. È una dinamica alla quale facciamo fatica ad abituarci, non fosse altro perché ci obbliga ad abbandonare antiche e consolidate certezze. A differenza di quanto infatti accadeva nel secolo scorso – quando lo stato conteneva il mercato e lo condizionava fino a dirigerlo – oggi è un solo mercato a contenere più stati, a condizionarli e a dirigerli. Un operaio Fiat in Serbia, dall’altra parte dell’Adriatico, guadagna appena 306 euro al mese, cioè meno di un terzo del salario di un suo collega italiano. Non è che ne siano contenti, anzi. Ma è un fatto che a qualche centinaio di chilometri da qui vengono stipulati contratti di lavoro talmente diversi dai nostri da rendere lo spostamento degli apparati produttivi in quei luoghi un’eventualità tutt’altro che remota. Il resto sono chiacchiere. Possiamo dire peste e corna di Marchionne, declinarne sdegnosamente gli inviti come ha fatto la presidente Boldrini o contestarne i risultati come piace a tanti, ma è difficile pretendere che non faccia gli interessi della propria azienda. Nessuno immagina di corrispondere ad un lavoratore italiano il salario serbo, ma non basta una protesta benedetta da un vescovo ad imporre regole più eque o ad impedire ad un imprenditore di scegliere ciò che gli consentirebbe di produrre di più pagando di meno. O importiamo, sul modello tedesco, relazioni aziendali meno conflittuali e più partecipative oppure – opzione però impossibile – esportiamo altrove i nostri diritti di democrazia sindacale.

Sia come sia, l’Italia è uno di quei territori che rischia di non superare la dura selezione imposta dalla globalizzazione. In tal senso, la cessione dei marchi più blasonati del made in Italy è molto di più di un sinistro indizio. Qui non parliamo di catene di montaggio, ma di atelier, alta sartoria, laboratori di artigianato artistico, manufatti di altissimo pregio ed universalmente riconosciuti come tratti distintivi di quel gusto e di quella raffinatezza italiani che soprattutto nel campo della moda, riuscirono negli anni ’80 a creare non pochi grattacapo alle più prestigiose maison d’Oltralpe.

Per questo, a guardar bene, più delle aziende italiane delocalizzate altrove – con i cui nomi innalzeremmo un secondo obelisco – è proprio la perdita in termini di patrimonio nazionale dei nostri migliori brand a segnalare che stiamo perdendo, e di brutto, la sfida della globalizzazione. Che la nostra industria di rubinetteria vada a produrre in India per arginare la concorrenza cinese è un dato che può essere spiegato con la possibilità di imitare a costi stracciati quel prodotto. Lo stesso però non vale per il cachemire di Loro Piana o per i gioielli di Bulgari. Se persino queste nostre inimitabili eccellenze prendono il volo in cerca di più rassicuranti contesti stranieri, vuol dire che il problema non sta tanto nell’aggressività industriale dei cinesi o nella forza commerciale dei francesi o degli emiri quanto nella debolezza del nostro sistema-Paese. Sarebbe perciò del tutto illusorio puntare esclusivamente sull’Expò milanese per ritornare campioni del mondo in quei settori. Certo, occorrono le riforme giuste bla bla bla, ma è anche il momento di dire che le difficoltà della politica stanno diventando un comodo alibi per la deresponsabilizzazione della società. Invece è proprio da questa che deve scattare la molla per ritrovare orgoglio, fiducia e voglia di fare. L’Italia, del resto, le sue sfide le ha vinte sempre così.

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