Anche per la destra non dovrebbe contare il “da dove vieni” ma il “dove vuoi andare”
Per la seconda volta mi tocca venire meno alla regola per cui, all’interno della stessa testata, non ci si cita a vicenda. Devo farlo perché l’articolo che ha scritto Landolfi sulla “sindrome dell’orologio rotto” (che ribatterei “sindrome del badogliano sarai tu!”) mi trova così concorde che non posso che sposarlo in pieno. La sindrome in questione testimonia meglio di altri aspetti una sorta di incapacità della destra – anche in questa fase – di pensare al dopo, o addirittura all’oggi, procedendo sempre con la testa rivolta indietro. Non è solo “nostalgismo”. Si può essere nostalgico di tante cose senza che questo impedisca di andare avanti nella vita. Qui si tratta di una malattia ben peggiore, frutto di un culto della marginalità e dell’incapacità di vedere cosa c’è oltre il muro del ghetto. Un provincialismo che poi porta chi esce dal ghetto a prendere le distanze dalla propria origine per paura di non essere accettato nei salotti buoni e in seguito, per una sorta di schizofrenia, o rivendicare urlando le proprie origini quando nel salotto non ti ci fanno entrare più. E più uno sta ai margini più accusa tutti gli altri di aver tradito giustificando la propria esclusione con una aderenza più “pura” all’identità messa al bando. Gli anatemi reciproci sono il pane quotidiano e – caratteristica della destra neofascista – vengono ereditati dalle generazioni successive, che nemmeno erano nate quando la diatriba iniziò. Così già all’inizio del Msi c’era chi aveva tradito per andare a sinistra e chi aveva tradito perché si era istituzionalizzato. Poi chi tradì per sostenere la Dc e chi tradì la vera destra sognando un sorpasso a sinistra. Poi chi era un fascista rosso e chi era un comunista nero, un filo-terrorista o un “amico delle guardie”. Poi chi aveva tradito il Msi passando ad An, poi tradito An per passare al Pdl, poi tradito il Pdl per passare al Fli. Poi chi ha tradito la Destra per passare ad altre formazioni più grandi o più piccine. Poi tradito Fini per rientrare nel Pdl, eccetera eccetera eccetera. Un delirio. Oggi ce n’è per tutti, per chi va e per chi resta, per chi c’era e per chi torna solo ora, in un gioco di porte girevoli che fa girare anche la testa. Alla fine l’impressione che resta è che questo continuo guardarsi indietro, anche nel riproporre formule e slogan che già in passato sono finiti in chiacchiere, sia dovuto all’incapacità di guardare avanti. O anche solo di guardarsi intorno. L’impressione, per dirla tutta, è che uno sia “moderato” quando governa e quando ha rendite di posizione e intransigente quando resta fuori dai giochi. Dopo molte generazioni infiammate da nobili parole e avvilite poi da fatti decisamente meno nobili, sarebbe bello poter dire: questa volta credetici. Questa volta non sarà come le altre volte. Questa volta non ci saranno i soldati che vanno al massacro e i generali che si siedono al tavolo delle trattative. Non ci saranno altri giovani che muoiono per permettere ad altri capi di sfilare ai funerali. Ai manifesti e alle “carte dei valori” non ci crede più nessuno. Si può credere negli uomini, però, se possono provare che sono sinceri, onesti e affidabili. Che mantengono le promesse e la parola data. Un grande eretico – un barone siciliano – bandito dal nostro Pantheon per far posto a economisti anglosassoni di seconda scelta, diceva che “quando l’esercito è pronto il generale si manifesta”. Che invece l’esercito si manifesti dopo che è stato costituito lo stato maggiore, con tutti i suoi uffici e la sua burocrazia, nella storia accade di rado. Parafrasando un condottiero greco: non basta avere le idee chiare, e non basta nemmeno saperle spiegare agli altri (anche se è essenziale). Il punto determinante è che bisogna “essere irreprensibili”. O, almeno, provarci. Bisogna risanare il divorzio tra etica e politica. Il resto è letteratura. Tra l’altro già letta.