Impresa, ricerca e patrimonio culturale: la politica latita, il Paese s’impoverisce
Secondo Sergio Marchionne è “impossibile fare impresa in Italia”. La sentenza non ammette appello, né tantomeno repliche. Le riforme promesse non sono state fatte, il mercato del lavoro langue, le piccole e medie aziende chiudono, l’autunno si prospetta infuocato. Nessuno, dice il numero uno della Fiat, gli può impedire di produrre altrove: sono soltanto le ragioni le “ragioni del cuore” che lo trattengono a Torino. E con questo i governanti che si sono riempiti la bocca di parole e le orecchie dei proclami assurdi della Fiom, sono serviti. Intanto si perdono posti di lavoro e competitività.
Così come nella ricerca e nell’innovazione. L’Italia è altrove, laddove professionisti e scienziati italiani hanno trovato “rifugio” posto che gli stanziamenti sono stati drasticamente diminuiti ed i poli storici della ricerca scientifica vivono un disagio crescente. Quale futuro può avere un Paese che non ritiene la ricerca una priorità e lascia andare i cervelli migliori, mentre le scuole di eccellenza in patria vivono una vita che definire grama è eufemistico?
Aggiungiamoci anche, per come viene evidenziato dalle cronache quotidiane, la vera e propria catastrofe culturale che si sta abbattendo su quello che una volta era il “Belpaese” per antonomasia: ha i connotati dell’abbandono dei siti storici ed archeologici, della miseria in cui si dibattono biblioteche ed archivi di grande pregio, dell’incuria di antichi luoghi di culto lasciati alla depredazione ed alle intemperie.
Fermiamoci qui. Tre aspetti di inquietanti proporzioni che danno il senso del declino italiano: impresa, ricerca e cultura. Non staremo a sciorinare per l’ennesima volta cifre fin troppo note, ma non è possibile che mese dopo mese, attaccati ad una sentenza o alle paturnie interne di un paio di partiti, la politica dimentichi il suo ruolo e la sua funzione. Certo, c’è da assicurare un minimo di benessere ai cittadini. Ma se non si comincia dalle più vistose contraddizioni rappresentate dal mondo della produzione in affanno, dell’innovazione inesistente e del patrimonio culturale in via di estinzione (e non ci riferiamo soltanto a Pompei, naturalmente), da quale altro versante si dovrebbe partire per dare un briciolo di speranza ad un Paese che ormai, nella migliore delle ipotesi, vive di illusioni?
La complessità della politica è di tutta evidenza che non può esaurirsi nell’incontro-scontro tra le forze che l’animano, ma se intende dare un senso a se stessa deve intervenire nei grandi processi di riqualificazione dell’esistente e nell’invenzione del futuro, nella progettazione di un avvenire salvaguardando ciò che ha a disposizione. Il resto, sono chiacchere che non portano da nessuna parte, neppure ad assecondare quell’aspirazione ad essere “più europei” come tutti ritengono che dovremmo essere. Ma senza una “missione” a portata di mano, riconoscibile, condivisa, restano appunto soltanto chiacchiere buone per riempiere le pagine dei giornali, ma non certo per dare una prospettiva ad un popolo che sta perdendo qualsiasi fiducia non soltanto nella classe dirigente, ma nelle istituzioni dalle quali si stente sempre più estraneo e lontano.
Le parole di Marchionne avrebbero dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque, dal presidente del Consiglio all’ultimo dei parlamentari, ma non abbiamo colto un solo commento ad esse che chiunque con un minimo di buon senso giudicherà “gravissime” ancorché giustificate ampiamente. Lo stato della ricerca e della cultura rilevate quotidianamente da studiosi, osservatori ed analisti dovrebbe indurre chi ha i poteri per intervenire a mettere la connessa questione dei due aspetti che attengono al sapere in evidenza fino a farne un caso nazionale tale da sensibilizzare i cittadini. Niente di questo accade. E si scambia la politica con la gestione dei rapporti tra le forze parlamentari. In attesa di un’agognata sentenza…