Le fibrillazioni del Pd ci riportano al logoro armamentario della politica vecchio stampo

22 Lug 2013 15:18 - di Silvano Moffa

Tattica, tattica, sempre tattica. Nient’altro che tattica. Non ce ne vogliano i  lettori, ma siamo arcistufi – e credo lo siate anche voi – di ascoltare ogni giorno dichiarazioni che sanno di  vecchio, di già sentito, tratte da un ormai logoro armamentario della politica. Luoghi comuni gettati in pasto a un’ opinione pubblica sempre più sfiduciata, giusto per riempire il vuoto. Un fraseggio  che lascia interdetti. Nel pieno di una crisi di identità e di futuro, il Pd, dopo le fibrillazioni per il caso Kazako, non sa trovare altro che chiedere  il “tagliando”, in autunno, per la compagine di governo . Si dice: Epifani – ma è stato il presidente del Consiglio, Enrico Letta, a lasciare intravedere per primo questa possibilità nel suo discorso alla Camera– lo ha dovuto fare per mantenere  la compattezza del suo gruppo parlamentare, a rischio sconquasso per colpa dei  renziani.  Un tatticismo che però non toglie mordente al dissenso interno. Lo congela, questo sì . Ma siamo pronti a scommettere sul suo disgelo quando la tenzone per la segreteria del partito si farà calda e bollente.

Sull’altro versante, il Pdl non è da meno. Tanto per riempire la  domenica e regalare un bel titolo ai giornali del lunedì, Renato Brunetta  rilancia sullo stesso argomento. Fatti due conti con i risultati elettorali più stravaganti degli ultimi tempi quanto a governabilità e tenuta dei partiti tradizionali,  il capogruppo Pdl  alla Camera accampa la pretesa di un rimpasto a somma pari. Dove la somma riguarda il numero rispettivo di ministeri che i due partiti maggiori dovrebbero spartirsi,  visto che quelle elezioni sono praticamente finite  pari e patta.  Da questo batti e ribatti si ricava l’impressione che i due blocchi che costituiscono la maggioranza si annusino, si controllino a distanza e si guardino in cagnesco. Entrambi condizionati da fattori interni e dal fatto che gli uni non si fidano degli altri.

In mezzo, c’è il governo, ovviamente. Che tira a campare. Che si regge su  e per questa immane debolezza dei partner  delle cosiddette “larghe intese”. E non si accorgono che, più si va avanti in questo modo, più  le intese vacillano e si rischia il collasso. Nell’ipotesi migliore  ci sarà una autentica Caporetto. Non siamo tra quelli che hanno fatto salti di gioia per la nascita di questo esecutivo. Per quanto l’emergenza chiamasse gli attori politici, tutti gli attori politici, indipendentemente dalle appartenenze e dalle provenienze, ad una sussulto di responsabilità per toglierci dai guai della recessione e dell’impoverimento  collettivo, non abbiamo mai creduto  nella capacità di coesione tra forze che hanno sempre fatto della contrapposizione un vangelo e dell’essere alternativi il vademecum della loro stessa sopravvivenza. Era da augurarsi, almeno, che , proprio per far fronte all’emergenza di un Paese a rischio default , convergessero su un certo numero di riforme . Visto che l’unione fa la forza, si era fatta strada la speranza che ,  per una volta, fossimo in grado di fare la voce grossa a Bruxelles per ottenere, almeno, quello che sulle deroghe al patto di stabilità hanno già ottenuto la Francia e la Spagna. Si pensava  che, finalmente, sarebbe stata imboccata la strada del risanamento puntando  sui  fattori  di forza del Bel Paese, per aprire la strada ad un modello di sviluppo coerente c on la nostra storia, geografia, cultura, valore di impresa,  con quella identità italiana che abbiamo perso di  vista e che  pulsa ancora nelle nostre vene.  Ci eravamo illusi del fatto che l’elemento motivazionale del far presto e subito per uscire dalla crisi aiutasse a infilare nel fodero le sciabole della perenne contesa. Invece, eccoci  qui a parlare ancora  di   tattica e di  vuoto a perdere. Se c’è un problema da affrontare, lo si rinvia. Se c’è da battagliare su omofobia, Kazaki, Imu, Iva, privatizzazioni, vendita dei gioielli di famiglia, dall’Eni alla Finmeccanica, al patrimonio pubblico, largo alle polemiche. Ognuno, a destra e a manca, a dire la sua. Guelfi e ghibellini.  Falchi e colombe. Dentro e  fuori i rispettivi partiti. In una confusione delle lingue e  nel vagare indistinto tra  proposte  poco credibili e poco praticabili.

La situazione economica e sociale, che non è affatto rosea e tende al peggio, richiede sobrietà  nei comportamenti e saggezza nelle decisioni. Senza una visione prospettica, senza una idea di futuro neanche queste doti, peraltro rare a vedersi, possono, però,  aiutare. Bisognerebbe uscire dal vago. Alimentare un Progetto.  Cambiare la rotta e dare una scossa. In tutti i sensi e su tutti i versanti. Anche ad una politica che non riesce a trovare di meglio che inseguire  formule del passato. Dovremmo pensare a come uscire dalla morsa del debito per alimentare la crescita; come superare la logica meramente finanziaria che ha sfibrato e  affossato l’economia produttiva dell’Occidente, che ha esposto le nostre imprese e i nostri brand all’assalto famelico delle multinazionali dei Paesi concorrenti; come rigenerare le aree urbane, le città e i mille paesi dove viviamo; su quali piattaforme tecnologiche, infrastrutture e aree di innovazione far leva per accrescere la nostra capacità competitiva.  Pensare in grande, dunque, non  alle piccinerie. A quali leggi togliere di mezzo, per esempio. Perché  vecchie, inutili, anacronistiche. Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie, diceva Montesquieiu.  Anche i  governi  deboli  alla lunga diventano  inutili e anacronistici.

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