Ormai non ci sono più dubbi: per creare lavoro bisogna ribaltare la filosofia della riforma Fornero
Sarebbe bene che il governo non lasciasse cadere nel vuoto la lettera-appello degli industriali per rilanciare il lavoro. Al fine di favorire l’occupazione, specialmente giovanile, e anche tenendo conto dell’evento Expo 2015 – si legge nel documento redatto dalle organizzazioni datoriali – per i prossimi tre anni e mezzo, le aziende dovrebbero avere la possibilità di stipulare con la stessa persona uno o più contratti a termine, per un massimo di 36 mesi, senza dover indicare alcuna «causale», cioè alcun motivo. Se non è una rivoluzione, poco ci manca. Si tratta, in sostanza, di ribaltare la filosofia ispiratrice della dannatissima riforma Fornero, che nella pallida impresa di combattere il precariato, ha finito con il far sparire dal mercato del lavoro una quantità notevole di posti legati ai contratti a termine e atipici, ampliando l’area della disoccupazione giovanile.
Con quella riforma, in sostanza, le imprese possono oggi assumere solo una volta un dipendente senza indicare la causale per una durata massima di 12 mesi. Con la proposta degli industriali non solo si accorcia l’intervallo di tempo tra una assunzione e l’altra, che passa a 5 giorni dagli attuali 60 (90 per i contratti di durata superiore a sei mesi), ma si possono stipulare 6 contratti di fila, per una durata massima complessiva di 36 mesi. Non è la panacea per tutti i mali che assillano la nostra economia, ma certo la proposta offre respiro in tempo di crisi: alle imprese , che potrebbero assumere con maggior facilità, liberate dall’assillo di doversi impegnare a trasformare il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato ex ante , cioè senza ancora avere certezze sull’andamento positivo del proprio bilancio aziendale; ai disoccupati, soprattutto giovani e donne, che si sono visti precludere ogni possibilità di impiego a causa della rarefazione dell’area della flessibilità in entrata provocata dalla riforma del governo Monti.
E’ facile prevedere le obiezioni . Alcune, come quelle della Cgil, non si sono fatte attendere. In un comunicato della segreteria , il sindacato della Camusso ha bollato come “impraticabili le ipotesi di ulteriori deregolamentazioni dei rapporti di lavoro”. Più soft la presa di posizione della Cisl. Per Bonanni la materia dovrebbe essere trattata direttamente dalle parti sociali e sfuggire alla logica legislativa. Idea, in linea di principio, non sbagliata. Se soltanto ci fossero le condizioni, però, per una intesa su questo argomento tra le parti sociali. Intesa che, finora, non c’è mai stata. Basta ricordare la telenovela della precedente legislatura. Allora, la riforma sbocciò come frutto di un compromesso al ribasso tra le forze politiche maggiori, Pd e Pdl, che, pur di portarne a casa un pezzetto, si accordarono nel limare gli aspetti che maggiormente irrigidiscono il mercato del lavoro sui versanti di accesso e di uscita. Una limatura che ha complicato la situazione invece di alleggerirla. Né, all’epoca, le parti sociali riuscirono a trovare una linea comune per evitare i danni conseguenti.
La verità è che si è fin troppo ideologizzato il tema del lavoro e, al suo interno, quello della precarietà. Non perché la precarietà non rappresenti un problema reale. Tutt’altro. Molte, troppe imprese, anche quando l’economia tirava, hanno abusato della contrattazione a termine e dei vantaggi fiscali derivanti dai contratti atipici, precarizzando oltremodo il rapporto di lavoro. Ma questa era ed è una anomalia che si può correggere con altri mezzi. Non si dimentichi che la curva occupazionale era salita negli anni precedenti la crisi. Grazie proprio all’ampliamento delle tipologie contrattuali e ad una maggiore flessibilità, i nostri dati occupazionali erano migliori di quelli della stessa Germania. La domanda che si pone adesso è la seguente: tra la possibilità di un lavoro sia pure precario (perché a tempo) e il nulla, che cosa è preferibile ? La risposta appare fin troppo scontata. Il resto purtroppo, in termini di mistificazione della realtà, lo ha fatto la demagogia spalmata a piene mani dai soliti noti di una sinistra, sia sindacale che politica, a parole riformista, ma nei fatti passatista.
Ora, non c’è più tempo per inseguire vuote elucubrazioni e bassi compromessi. Il Paese ha bisogno di uno scatto, di risvegliarsi dal torpore. Le giaculatorie sulla “deregolamentazione” sanno di muffa. E chi è alla ricerca disperata di un lavoro non può stare ad ammuffire nell’attesa di un posto che non arriva mai. Semmai, c’è da chiedersi perché , accanto a questa proposta, il governo non pensi anche di concedere per tre anni fiscalità zero alle imprese che investono in innovazione e produttività. Sarebbe un bel segnale per tutti. L’anticamera per rendere effettive e permanenti le assunzioni che oggi sono a tempo determinato. Ad una crisi, così profonda e lacerante, si risponde con idee nuove e senso di responsabilità. Non con i soliti sofismi.