Vendere i “gioielli” di Stato per risanare il debito? Un’idea che ricorda i tempi infausti del Britannia

19 Lug 2013 15:50 - di Oreste Martino

Il tecnico Fabrizio Saccomanni, ministro dell’economia dell’era delle larghe intese, ha deciso di gettare la maschera. L’ha fatto ieri a Mosca a margine di una riunione economica del G20 e intervistato da Bloomberg Tv ha annunciato che l’Italia è pronta a vendere (o a svendere?) i suoi ultimi e appetibili gioielli di famiglia.

«Non è escluso – ha detto a Mosca l’inquilino di via XX Settembre – che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche, incluse Eni, Enel e Finmeccanica, per ridurre il debito». Poche parole, ma di gran peso, soprattutto se si pensa a quello che è accaduto in passato quando si è dato avvio a questi processi, parole che portano la mente al passato e fanno venire un brivido alla schiena.

L’ultima volta che si parlò di vendere gioielli nazionali per far cassa era il 2 giugno del 1992 a bordo del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. A bordo salì Mario Draghi, oggi a capo della Bce e allora direttore generale del Tesoro, quindi azionista dei gioielli pubblici italiani. Ad invitarlo con tanto sfarzo furono i British Invisibles, potentissima lobbies della City londinese composta da nomi altisonanti come i Warburg, i Barings, i Barclays, accompagnati da uomini di Goldman Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo internazionale.

Obiettivo degli Invisibles era quello di spolpare quanto di buono c’era di pubblico in Italia, spiegando al nostro direttore del Tesoro e ai vertici delle partecipazioni italiani come dovevano vendere i gioielli che avevano. Non a caso con Draghi salirono a bordo il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi – poi divenuto presidente della Repubblica -, Beniamino Andreatta – maestro economico e politico dell’attuale presidente del Consiglio Enrico Letta -, nonché i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit e Confindustria. Nomi pesanti, da Innocenzo Cipolletta a Gabriela Cagliari, da Giovanni Bazoli a Luigi Spaventa.

Il clima era quello di oggi, con l’Europa che ci redarguiva perché non riuscivamo a tenere sotto controllo il debito pubblico e i politici delegittimati e indeboliti da questioni giudiziarie e discredito pubblico generalizzato.

Il risultato è facile da ricordare e spesso viene definito come la più grande depredazione industriale che l’Italia potesse subire, con operazioni che fecero poca cassa, non risolsero il problema del debito pubblico e consegnarono alle centrali internazionali di speculazione pezzi significativi della nostra ricchezza nazionale.

Adesso, vista il clima identico, visti i protagonisti uguali o collegabili – da Draghi al Letta allievo di Andreatta – è molto alto il rischio che l’Italia subisca un Britannia 2 che porti fuori dai confini quel che di importante ci è rimasto. In particolare abbiamo tre ghiotti bocconi su cui da tempo la speculazione internazionale ha messo gli occhi: Eni, Enel e Finmeccanica. Sono questi gli asset che ci vogliono sfilare ed è per questo che Saccomanni da Mosca ha aperto le danze, proprio mentre lo stesso Letta diceva più o meno le stesse cose a Londra dove ha incontrato gli investitori garantendo che presto partiremo con nuove privatizzazioni.

Gli indizi sul rischio di un Britannia 2 si moltiplicano e la politica farebbe bene a mettere in campo proposte alternative per la riduzione del debito pubblico – a partire dal taglio draconiano della spesa pubblica – prima che dall’estero ci dicano che se vogliamo salvare i nostri conti dobbiamo consegnare agli speculatori l’argenteria che ci è rimasta.

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