Basta macerarci nell’attesa: i barbari si annidano ovunque

1 Ago 2013 16:56 - di Silvano Moffa

Viviamo nell’attesa. Le nostre giornate sono fatte di attesa. Tutto, intorno a noi, si muove in attesa di qualcosa. Di un messaggio che non arriva. Di una sentenza da cui può dipendere il destino del Paese. Di una legge che annulli una legge elettorale che ha provocato guasti inenarrabili. Di una crescita che tarda ad arrivare, mentre la disoccupazione giovanile sfonda quota 49 per cento, toccando livelli mai visti in precedenza. Di una sinistra che non c’ è più, come confessa uno spaesato De Gregori,  e che ha finito di essere “sinistra” da un bel pezzo; almeno da quando ha smesso di pensare alle cose serie della vita e ha fatto ascendere a mito il banale e il superfluo. Di una destra che si è sciolta come neve al sole, perdendo identità, ascendente e presenza nei luoghi dove almeno poteva far contare il numero, dopo aver rinunciato alla qualità del progetto che  ne aveva esaltato il profilo quando possedeva carattere, doti di pensiero e personalità di spicco. Viviamo nell’attesa consumando il presente, privi  di una idea di futuro. In attesa del Royal baby, in attesa del campionato di calcio, di un autunno che si preannuncia caldo, anzi bollente. E l’attesa diventa parte di noi stessi, scansione della esistenza quotidiana, punto di incrocio tra spasmodica ricerca di una dimensione dell’essere e ritmica sequenza dei social network. Notizie che  rimbalzano su schermi e display offrono la percezione di un mondo che avanza, inarrestabile. Ma è solo “avanzamento” illusorio. Icona fuorviante dello scorrere di un tempo demolitore di certezze e poco incline a costruire prospettive solide e durature. Nell’ attesa, avanza il precario. Perché l’attesa è essa stessa precaria per definizione. Almeno  così dovrebbe essere. Solo che, nel mondo post moderno e globale,  essa si  alimenta di precarietà, una precarietà di lungo corso, quella dalla quale non si fuoriesce mai. Una attesa che non si stabilizza, che non ha un prima e non ha un dopo. E’ l’attesa per l’ attesa. Che diventa manifesto politico, idea forza di sopravvivenza per un governo ,come quello attuale a guida Letta, che, sull’attesa, fonda il principio ispiratore e nell’attesa  prova a solidificare  le sue stesse speranze di vita. Nato per fare le riforme che servono al Paese, per tirarci  fuori dalla recessione e dal debito, per ridare fiato alle imprese e alle famiglie segnate dalla crisi, l’esecutivo della inedita alleanza degli opposti (per definizione) tira avanti nell’attesa di eventi che non può determinare. Mentre su quel che potrebbe determinare, attende il disco verde dei partiti che, su dieci cose da fare, almeno su nove hanno idee diverse e, spesso, confuse.

Così l’attesa, un tempo suscitatrice di grandi fermenti, animatrice di storiche rivoluzioni, di epocali sconvolgimenti, appassisce e muore per questa sua  indole infelice. Per essere fine a se stessa e non più speranza di futuro, di cambiamento, di nuove e progressive sorti di una umanità dolente e sofferente. Che ha perso senso della storia e senso comune. Che si avviluppa e tormenta alla ricerca di punti di riferimento che non ci sono. Una umanità in disfacimento etico e materialmente in declino.

Uno spettro si aggira per il mondo, ha scritto recentemente, Mauro Bonaiuti, professore di Finanza etica all’Università di  Torino. È lo spettro della decrescita ” reale”. Un concetto che fatica ad entrare nel circolo “virtuoso” degli economisti che contano, ma che ha dalla sua non poche ragioni su cui una riflessione si imporrebbe. Intanto, perché , nonostante la lunga attesa, la crisi iniziata nel 2008 non accenna a rientrare. Con i milioni di nuovi disoccupati, la mancata ripresa economica, il senso di precarietà e insicurezza sempre più diffuso, aumenta il sospetto che ci troviamo di fronte a qualcosa di più grave e pesante di una semplice crisi congiunturale. Per alcuni è in declino una certa idea di Europa e di Occidente. Quello che le società capitalistiche stavano attraversando, ancor prima che scoppiasse la bolla dei derivati e dei titoli spazzatura, per altri andava ben oltre la semplice crisi economica per assumere la portata di una vera e propria crisi di sistema. Una crisi totale e totalizzante. Capace di incidere al tempo stesso nel campo economico, sociale, culturale, ecologico.

Nel declinare di un sistema e di una idea di sviluppo, avremmo dovuto assistere a una imponente reazione ricostruttiva. Allo sprigionarsi  di idee e progetti per elaborare modelli nuovi e calzanti. Ristabilendo gerarchie valoriali, comportamenti adeguati, sistemi di vita più consoni. Consapevoli di essere coinvolti in una grande fase di transizione, avremmo dovuto tracciare i confini di un nuovo orizzonte.  Invece, eccoci qui, a macerarci  nell’attesa. A vivere di attesa. Offrendo materiale di studio a esperti in psicologia e sociologia delle masse. Pronti a rimuovere  tutto quel che richiama alla responsabilità diretta di ognuno. Abili nel ricercare le cause della crisi in fattori esterni. Nella  nostra cultura, per la caduta dell’Impero, la colpa è sempre dei barbari. Una autoassoluzione che aiuta a  farci  dimenticare  che i barbari si annidano ovunque: nella concorrenza internazionale, spesso drogata, nella  grande finanza speculativa, nell’ esaurirsi delle risorse disponibili. Un  elenco che si allunga.  Dal quale non si sfugge.

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